Negli ultimi giorni il mercato americano, dopo una lunghissima fase Toro, cioè di forte espansione, sembra aver intrapreso una fase Orso, di brusco ripiegamento. Conoscendo l’influenza che Wall Street esercita sui mercati finanziari mondiali, i risparmiatori si domandano quali aspettative riserverà la Borsa Usa nel 2019? “Tutto dipende dall’orizzonte temporale – risponde Alessandro Magagnoli, analista tecnico e cofondatore di Trend Financial Analysis (Ftaonline) –. Molto probabilmente saranno negative per il breve termine, soprattutto in caso di caduta dell’indice S&P 500 sotto i 2.400 punti, e decisamente più rosee per il medio termine, dove tra i 2.050 e i 1.800 punti dell’S&P 500 si dovranno cercare quegli indizi di miglioramento del sentiment di mercato da cogliere per iniziare nuovamente ad accumulare posizioni”.



Intanto la Fed ha confermato nei giorni scorsi il quarto rialzo dei tassi del 2018 e le Borse hanno reagito male…

Le ultime sedute di quest’anno sono state caratterizzate da un’evidente debolezza dei principali indici azionari Usa, proprio in un periodo che statisticamente è invece noto per essere caratterizzato dal “rally di fine anno”, il rialzo che accompagna spesso la chiusura dell’anno borsistico, e – non scordiamocelo – dei conti dei gestori, che tentano per quanto possono di sostenere il mercato in modo da presentare ai clienti report dignitosi di performance.



A preoccupare gli investitori è stato il rialzo dello 0,25%, deciso dalla Fed mercoledì 19 dicembre, e le previsioni di altri due rialzi nel 2019?

Non solo. Pesa anche il fatto, o meglio, soprattutto il fatto che la Fed continuerà a ridurre il suo bilancio mantenendo la velocità attuale, mentre i mercati speravano almeno che la riduzione potesse decelerare. La conseguenza è stata la violazione della soglia del 3% di rendimento da parte dei Treasury bond a 30 anni e il raggiungimento di nuovi minimi 2018 per il Dow Jones, che è sceso al di sotto dei 23.000 punti, violando i minimi del 9 febbraio a 23.360 e quelli del 2 aprile a 23.344, entrambi ora resistenza in caso di rimbalzi. Se consideriamo questi minimi, la base del doppio massimo disegnato dal top di gennaio a 26.616 punti, poi superato brevemente il 3 ottobre dal picco di quota 26.952 circa, come un “gravestone doji”, cioè una “pietra tombale” – la candela settimanale di quell’ottava, invece, è stata uno “shooting star”, elemento quasi altrettanto negativo anche se dal nome meno evocativo -, allora ad oggi c’è stato il completamento della figura ribassista. A 23.215 circa c’era la base del canale ribassista che parte dal top di ottobre, un altro supporto che, anche se di misura, è stato violato, ma è il completamento del doppio massimo a rappresentare un elemento davvero preoccupante. Il target della figura, calcolato in base alla proiezione della sua ampiezza, si colloca infatti a 20.000 punti circa. Difficile a questo punto evitare anche il taglio ribassista della media mobile esponenziale a 50 giorni della 200 giorni, medie che erano incrociate al rialzo dall’inizio di aprile del 2016. Per il momento i prezzi si mantengono una manciata di punti al di sotto di quota 23.215, ma i margini di manovra ormai non esistono più.



E quindi?

O da questi livelli parte una reazione credibile oppure c’è da mettere in conto una fase prolungata di nuovi ribassi. Per il Dow Jones, a meno di una pronta ripresa, questo potrebbe essere il peggior mese di dicembre dal 1931, l’anno della Grande Depressione, così come per l’S&P 500.

La situazione di Wall Street è davvero così grave?

Per convincersi della gravità basta osservare l’andamento dell’indice Dow Jones Transportation. Il padre dell’analisi tecnica come la conosciamo noi oggi, Charles Dow, sosteneva che per confermare, e spesso anticipare, i punti di svolta dell’indice Dow Jones Industrial, era necessario tenere sotto controllo i movimenti del Dow Jones Transportation Average, dal momento che i trasporti sono ovviamente condizionati dall’andamento del ciclo economico. Ebbene, il Dow Jones Transportation Average, dopo aver testato con precisione chirurgica con i massimi di gennaio e di settembre il lato alto del canale rialzista che contiene le oscillazioni dai minimi del marzo 2009 (un canale è una coppia di linee parallele all’interno delle quali si muovono i prezzi alternando test della parte alta e di quella bassa della fascia), i prezzi sono scesi con una velocità veramente molto elevata al di sotto della media mobile a 200 giorni, passante a 9.283 punti, completando il “doppio massimo”, pesante figura ribassista, disegnato in area 11.500 da inizio anno. Solo la tenuta della base del canale, ora in transito come la media mobile esponenziale a 400 settimane in area 8.000 punti, permetterebbe di evitare una vera e propria inversione di tendenza in senso ribassista, un evento che aprirebbe la strada a movimenti anche sui 4.000 punti, livelli di prezzo che non si vedono dal 2011.

Che cosa dobbiamo aspettarci nel 2019?

A pesare sulla prima parte del 2019 saranno gli stessi temi che hanno causato la débâcle di questo ultimo scorcio del 2018: il timore di un rallentamento dell’economia Usa; il proseguire delle tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina; la debolezza politica di Trump dopo il risultato delle elezioni di medio termine.

Spiragli non se ne vedono proprio?

Fermo restando che il rischio di una correzione ben più ampia di quella già vista per l’azionario Usa è concreto, e che quindi i primi mesi del 2019 saranno caratterizzati probabilmente da un aumento della volatilità – ricordando sempre che volatilità e andamento del mercato azionario hanno direzioni opposte: la prima tende a salire quando il secondo si ridimensiona, e questo è il motivo per cui si deve avere paura di impennate dell’indice Vix della volatilità implicita – e dal proseguimento dei ribassi, ci sono anche elementi in favore di una successiva ripresa, già nel corso del 2019, delle Borse.

Quali sono?

Il primo è che resta improbabile un’imminente recessione. Le ultime stime della Fed a metà dicembre prevedono per il 2019 una crescita del 2,3%, un’inflazione all’1,9% e una disoccupazione al 3,5%: tutti numeri che a noi europei ci farebbero leccare i baffi.

E il secondo motivo che tiene accesa la speranza?

L’anno successivo alle elezioni di mid-term è storicamente positivo per il mercato azionario, con l’S&P 500 che nei 12 mesi successivi alla tornata elettorale ha guadagnato in media il 15% dal 1950 a oggi. E dal dopoguerra l’economia Usa non è mai entrata in recessione nel terzo anno di un mandato presidenziale, cioè Trump tirerà sicuramente fuori un coniglio dal cappello, magari un programma di spese in infrastrutture condiviso con i Democratici, che potrebbe rimettere l’economia su una traiettoria di crescita più rapida.

I titoli tecnologici stanno soffrendo. Il Nasdaq ha perso la sua forza propulsiva?

Sì, è vero, i FAANG (Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Google) sono saliti molto, sicuramente troppo, ma l’attuale correzione li sta già riportando su livelli interessanti di acquisto, difficile credere che scendano ancora molto. Le tendenze, anche quelle più forti, si sa, non procedono a senso unico, e una fase di storno non solo è scritta nella natura delle cose, ma è anche salutare, perché permette a quegli investitori che non sono saliti sul carro nel momento giusto di prendere il coraggio a due mani e, dopo una flessione, far convergere forze fresche sul mercato. Teniamo conto che dall’inizio del 2009 il mercato azionario statunitense ha permesso di raggiungere e superare la soglia del 400% di ritorni cumulati, il doppio circa delle azioni internazionali, e nell’ambito degli stessi Stati Uniti i titoli “growth” hanno fatto registrare una performance doppia dei titoli “value”. E proprio i FAANG hanno pesato, negli ultimi mesi, per la metà circa sui ritorni dell’intero paniere S&P 500. E’ evidente che performance di questo tipo non possono continuare all’infinito, ma per il momento non ci sono segnali che l’oro si sia trasformato in piombo.

Il problema, però, come sembra avviene nelle fasi di storno, è capire quando, e ovviamente se, è il momento di rientrare dopo la burrasca. Che fare?

Gli investitori hanno purtroppo la tendenza a lasciarsi condizionare troppo dagli eventi più recenti dimenticandosi del quadro generale. Quando la Borsa sale c’è la sensazione che possa farlo per sempre, quando scende lo sconforto diventa l’unico sentimento possibile. L’analisi tecnica ci insegna invece che le flessioni sono di norma proporzionali ai movimenti che correggono.

Tradotto in concreto, che cosa consiglia l’analisi tecnica?

Osservando il grafico dell’S&P 500 ci si accorge che il ripiegamento del 2011 aveva ritracciato il 40% circa del rialzo dai minimi del 2009, quello terminato a inizio 2016 aveva percorso a ritroso un terzo circa del rialzo dai minimi del 2011. Con la flessione attuale siamo invece già sul 50% circa di ritorno rispetto al rialzo dai minimi del 2016, un 50% che coincide con la media mobile esponenziale a 200 settimane, passante a 2.400 punti circa. Se area 2.400 dovesse venire violata bisognerebbe mettere in conto una correzione non solo del rialzo dai minimi del 2016, ma dell’intero ciclo espansivo partito nel 2009. Sotto area 2.400 si aprirebbe la strada per arrivare sul 50% di ritracciamento dell’intero rialzo, supporto coincidente in area 1.800 con i minimi di inizio 2016. Un calo importante, certo, ma che potrebbe anche realizzarsi in poco tempo: la retta di regressione calcolata a partire dal massimo di settembre incrocia i 1.800 punti attorno a inizio luglio. I primi sei mesi dell’anno potrebbero essere quindi di sofferenza, ma esiste anche un’ipotesi meno drastica, che prevede una flessione limitata ai 2.050 punti, raggiungibili già a inizio maggio. Successivamente il mercato potrebbe tornare, e anche rapidamente, sui massimi del 2018, probabilmente con l’intento di sfondarli.

(Marco Biscella)