«Potrei sparare a qualcuno per strada e continuerebbero comunque a votarmi». In uno dei suoi non rari momenti di egocentrismo e con i sondaggi (e le Borse) ai massimi record, Donald Trump pronunciò questa frase per sintetizzare il momento che stava caratterizzando la nazione e lo stato di salute della sua presidenza. Aveva ragione. Ora, però, la luna di miele sta finendo anche per lui. E, temo, i primi mesi del 2019 rappresenteranno un brusco risveglio e un ritorno alla realtà decisamente traumatico. Per Trump? Non solo, purtroppo. Fosse per lui, francamente, il mio interesse sarebbe pari a quello che ho per l’uncinetto, i servi sciocchi del potere li ho sempre disprezzati molto più dei loro pupari.



Il problema è che il conto di quella colossale opera di destabilizzazione globale chiamata sovranismo, di fatto il morphing di élites in crisi di consenso e alla ricerca di una nuova verginità attraverso l’uso di maschere degne di una sciarada psicanalitica, lo pagheremo tutti. E lo pagheremo carissimo. Lasciate stare per un attimo i mercati, di quelli ci occuperemo nei prossimi giorni. Qui la questione è differente e occorre essere chiari. Ciò che stiamo osservando platealmente accadere in Borsa, così come invece ciò che si sta dipanando sotto il pelo invisibile dell’acqua di comparti più tecnici come l’obbligazionario ad alto rendimento, sono soltanto il volto presentabile del disastro. Perché occorre dire la verità: non si può incolpare il detonatore per l’esplosione. O il fertilizzante utilizzato come accelerante di un incendio doloso. Senza le condizioni per lo scoppio o il divampare delle fiamme, non si sarebbe arrivati a certe conclusioni. E, soprattutto, senza un beneficiario delle macerie, della cenere e della polizza assicurativa ad esse legata.



Quindi, attenzione a non fare il gioco dell’establishment. Il quale, se ben ricordate, vi ho detto in tempi non sospetti – più o meno il 7 o l’8 novembre 2016 – che ha messo Trump alla Casa Bianca esattamente con questo scopo: assicurarsi un capro espiatorio credibile per la prossima crisi e creare così le condizioni per il proprio trionfale ritorno da cavaliere bianco. E, soprattutto, a furor di popolo. Insomma, serviva un monsieur Malausséne credibile e perfetto per un principio di restaurazione rapido e indolore: perché se infatti il campione mondiale del populismo sarà additato da tutti, media in testa, come il responsabile di una crisi economico-finanziaria ben peggiore del 2008 (e gli elementi macro per pensarlo, ci sono tutti), allora il famoso vento del cambiamento iniziato con il Brexit, passato per la Casa Bianca e giunto al suo punto terminale di sigma in Italia con l’esperimento giallo-verde sarà morto e sepolto. Distrutto, annientato in una settimana. Dall’onnipotenza plebiscitaria e plebiscitaristica efficacemente condensata nella frase di Trump che ho citato a inizio dell’articolo al tracollo, dalle stelle alle stalle. Dal potere in declinazione positiva a incarnazione omologatoria dello stesso, quindi in accezione doppiamente negativa.



Parliamoci chiaro: sotto a quanto sta accadendo fra Camera e Senato c’è qualcosa di inconfessabile. Tanta stupidità, tanto oltraggioso disprezzo per le regole minime della democrazia non possono nascere unicamente dallo spirito primitivo e dall’incidente darwiniano in cui si sostanzia per l’80% abbondante questa compagine di governo (la quale, a dire il vero, nella sua componente grillina e su ordine del grande capo della Gattaca del big data, la privatissima e yes-profit Casaleggio Associati, ha parlato chiaramente di svuotamento e superamento del parlamentarismo, fino a preconizzarne addirittura l’estrazione a sorte dei membri): qualcuno sta tirando i fili. E, a differenza dei signori dei servizi e dei ministeri francesi che hanno mosso fino all’altro giorno i “gilet gialli” (ben intesi, il 90% di chi ha partecipato alle manifestazioni lo ha fatto in perfetta buona fede e mosso da reale esasperazione economica e sociale, il problema sta sempre nella testa del serpente), qui le cose vengono fatte per bene. D’altronde, abbiamo qualche decennio di esperienza e una palestra chiamata “strategia della tensione” che ci pone in cima al podio europeo, quando si parla di destabilizzazione e governi eterodiretti. Siamo campioni assoluti.

Temo però che qualcosa stia andando fuori giri, esattamente come in America. Esattamente come in Ungheria. Già, l’Ungheria di Viktor Orban, presunto alleato di ferro del governo giallo-verde in nome del sovranismo e dei confini chiusi, ricevuto con tutti gli onori istituzionali dal ministro dell’Interno presso la Prefettura di Milano la scorsa estate. Bene, l’uomo che vuole il bene del suo popolo e pone questo obiettivo in cima alla lista delle priorità, ha un problemino in queste ore. La piazza. E questa volta, si tratta della carne viva. Perché George Soros e le sue istituzioni sono state cacciate dall’Ungheria, quindi difficilmente potranno aver organizzato le proteste di massa di questi giorni contro la “Legge schiavitù”.

Già, l’hanno propria ribattezzata così i cittadini ungheresi. Perché, al netto del saldo dare/avere da mille e una notte di cui l’anti-europeista con i fondi Ue degli altri Orban può godere, esiste sempre una base di fondo in certi miracoli economici inspiegabili: in questo caso, lo sfruttamento statale. Già, perché il governo magiaro ha dato luce verde a una legge che porta da 250 a 400 le ore di straordinario all’anno. Capito certa iper-produttività di stampo cinese da dove arriva? E sapete chi paga il conto di quelle leggi da Paese dittatoriale? Noi. Perché gli imprenditori esteri senza scrupoli arrivano in Italia, comprando aziende storiche in crisi per quattro soldi e poi vanno a produrre in Paese che garantiscono condizioni fiscali e di lavoro “migliori” come l’Ungheria: ovvero, sgravi pagati con i soldi di tutti sotto forma di aiuti europei verso governi euroscettici che su Bruxelles ci sputano ogni tre per due e leggi che istituzionalizzazione lo sfruttamento, come quella contro cui stanno protestando in questi giorni in Ungheria.

Ha nulla da dire al riguardo quel campione della tutela del made in Italy del ministro dell’Interno? Ma si sa, i media preferiscono altre emergenze. I “gilet gialli”, appunto. Cosa vi avevo detto? Sabato scorso erano un migliaio scarso a Parigi: attesi a Versailles come da annuncio su Facebook, si sono poi materializzati nel più mediatico e bohemiene quartiere di Montmartre. Infine, dieci minuti di rituale guerriglia sugli Champs Elysée, tanto per non deludere gli operatori accorsi in massa. In tutta la Francia, erano in 38mila a protestare sabato. Colpa dello spirito natalizio? Delle concessioni di Macron? Del clima di rinnovato allarme sicurezza post-Strasburgo? Non lo so, so che il nuovo Sessantotto è durato un mese. Ora è ridotto ai numeri degni delle primarie del Pd. In compenso, Emmanuel Macron ha vinto su tutta la linea politica, è di nuovo in sella. E nessuno più parla delle sue dimissioni o di crisi di governo. Anzi.

Vogliamo parlare di quell’altro straordinario laboratorio di sovranismo chiamato Brexit? Direi che abbiamo già detto abbastanza al riguardo. E, soprattutto, la realtà quotidiana dei fatti parla da sola: non sanno più come rendere accettabile la marcia indietro, quindi stanno cercando di drammatizzare la situazione, a colpi di report catastrofistici (l’ultimo sul numero record di senza tetto morti per il freddo nel Regno Unito negli ultimi quattro anni) e di plateali prove di dilettantismo e divisione interna. Anche in questo caso, come ben sa la Bank of England, ci penserà la crisi finanziaria in arrivo a tagliare la testa al toro.

Perché non si discute di queste cose, davvero serie, come l’argomento meriterebbe? A quale gioco stanno giocando al governo? E, soprattutto, fuori dal governo? Io capisco che il Natale anestetizzi tutti, una specie di morfina generalizzata che addolcisce ogni criticità, ma signori, questa gente che dice di voler guidare il Paese in nome della giustizia sociale, ha appena piazzato clausole di salvaguardia relative all’aumento dell’Iva nel biennio 2020-2021 pari a 51,7 miliardi di euro totali: sapete cosa significa? Il default. La Grecia. Il Fmi con i trolley che bussa a palazzo Chigi. Hanno ipotecato il futuro stesso del Paese per far passare due idiozie di provvedimenti-spot e sperare così di infinocchiare ancora la gente, seguendo l’esempio di Donald Trump, anche alle europee. Confidando, poi, in una fantomatica Commissione di sovranisti che ribalti la narrativa e il paradigma europeo. L’avesse fatto chiunque altro, lo bolleremmo come un atto di sovrana criminalità politica a fine unicamente propagandistico ed elettorale e chiederemmo una nuova Norimberga. Lo hanno fatto i giallo-verdi, quelli del “cambiamento” e tutti applaudono felici, garantendo loro il 60% di consensi nelle intenzioni di voto. Lavaggio del cervello di massa.

Proprio come nella metafora di Donald Trump, siamo all’acme della deriva plebiscitaria collettiva, al massimo umanamente accettabile di consenso fideistico, degno di Scientology e totalmente acritico: da qui in poi, si può solo rinsavire. O fallire, come la Grecia appunto. E temo che qualcuno punti a questo. E che grosse pedine siano in movimento, lo conferma la foto, riportata dal Corriere della Sera, dopo essere diventata virale in Rete: Mario Draghi che, per tornare in Italia, non solo prende un volo di linea ma viaggia addirittura in economy. Pensate che sia un caso che esca solo ora? Pensate che, se questa è prassi consolidata del capo della Bce, prima nessuno lo abbia riconosciuto e fotografato, mentre compiva quel gesto così umano, come direbbe il ragionier Fantozzi, di riporre il bagaglio nella cappelliera e poi sedersi diligentemente al suo posto fra i comuni mortali? Magari chiedendo al vicino se vuole fare cambio, se preferisce corridoio o finestrino.

Dai, siamo seri. Casualmente, proprio ora spunta il fotografo inconsapevole che posta l’immagine sui social e in un attimo diventa virale: proprio ora. C’è una lotta di potere ai massimi livelli in atto e l’Italia è – come sempre, dal 1945 in poi – la pietra angolare, lo snodo fondamentale per i nuovi equilibri. Non a caso, i commenti alla fotografia di Mario Draghi puzzavano molto di risposte a uno stress test psico-politico. E fossi nei panni dei membri del governo, leggi i due vice-premier, non starei troppo tranquillo. Perché il tono più diffuso delle riposte è stato il seguente: “È umile, non fa selfie, non si vanta, eppure viaggia in economy”. Un uomo che ha salvato l’eurozona, ha guidato – seppur per pochi mesi – la filiale europea di Goldman Sachs e che proviene da quella scuola di potere sopraffina che sono i gesuiti (chiedere a tutti i governi spagnoli, dalla caduta di Franco in poi, per referenze: la vera sede dell’esecutivo non è alla Moncloa ma in Avenida Cantabria a Boadilla del Monte, 28660 Madrid).

“Siamo fieri di lui”, il commento più diffuso. E cosa ha detto, con grande enfasi, lo stesso Mario Draghi non più tardi di una settimana fa, ricevendo un PhD honoris causa alla Scuola Sant’Anna di Pisa? “Sono orgoglioso di essere italiano”. Consonanza totale fra l’eroe umile e silenzioso, serio e responsabile e il suo “pubblico” social. Presto, il suo elettorato, immagino. E c’è da sperarlo. Perché al netto della questione legata al Britannia, al 1992-’93 e alla grande svendita dell’Italia che si sostanziò in quella stagione di destabilizzazione eterodiretta, oggi Mario Draghi rappresenta il fronte dei buoni. Quello di chi ci farà magari rigare molto più dritti di quanto siamo abituati a fare a livello di conti pubblici, di serietà e produttività del lavoro (mia madre ha la linea del telefono fisso isolata da due giorni per un guasto alla cabina di zona e ieri, il call center della Tim mi ha fatto sapere che, causa festività natalizie, il guasto sarà riparato – sperano – fra il 28 e il 29 dicembre), di fine dei privilegi e delle scappatoie (contenute a bizzeffe nel maxi-emendamento fatto passare all’una di notte al Senato, tipico di chi non vuole che venga letto), ma che, quantomeno, non punta alla colonizzazione assoluta a livello di scelte interne.

Insomma, se sarà Mario Draghi la risposta al sovranismo, magari qualche conto lo dovremo pagare ma al tavolo delle trattative, almeno in Europa, manderemo uno che sul curriculum vitae, al primo punto, può vantarsi di recare il riferimento “Salvatore dell’eurozona dal maggio 2012”. Tutta l’eurozona, Germania e Francia comprese. Anzi, in testa. Certo, steward allo stadio San Paolo di Napoli o direttore di RadioPadaniaLibera fa molto più popolare e populista – e appare molto più adatto alla parte in commedia, per chi ci vuole sottomettere via proxy -, ma occorrerà accontentarsi.

Perché sapete qual è l’alternativa, se continueremo a credere alle favole sovraniste e alle maschere un po’ ridicole alla Toninelli che l’establishment anglo-americano più deteriore ha utilizzato per mimetizzarsi finora (nemmeno tanto bene, a dire il vero, basti vedere la vicenda del gasdotto Tap in Puglia)? Siete abbastanza intelligenti da averlo capito da soli. Sta a voi, adesso. Mancano solo sei mesi all’appuntamento fra un destino greco e una possibile, ancorché dura e dolorosa, ripartenza: scegliete. Con un’avvertenza: questa sarà l’ultima chiamata. Poi, rien ne va plus.