La ripresa di un confronto con i vertici europei sui temi delle politiche di bilancio – pur in assenza di novità significative su quelli delle concrete strategie di crescita – rappresenta un elemento positivo, voluto dalle forze più consapevoli degli effetti prorompenti provocati dall’avvio di una procedura di infrazione e, in generale, da un distacco irrimediabile dagli altri Paesi del continente. Questa scelta ha contribuito a raffreddare i mercati e ad attenuare l’incremento dello spread. Tuttavia, si tratta solo di un “compromesso” tra l’attuale assetto dell’Ue e il Governo italiano, in attesa della prova decisiva delle elezioni europee.



In questa direzione è ancora troppo flebile la voce di chi vorrebbe non rimanere stretto nella tenaglia tra i nuovi populismi e le vecchie classi dirigenti europee, tra chi vuole annullare il processo di integrazione europea e chi non è in grado di uscire dalle politiche di stabilizzazione senza sviluppo. Una nuova prospettiva comincia a delinearsi più che nelle posizioni politiche, ancora troppo confuse e diversificate nelle forze che dovrebbero contrastare il fronte sovranista, nelle idee degli studiosi italiani che sostengono l’appello di Cacciari per una nuova Europa e nelle iniziative dell’associazione “Europa Now!” per un patriottismo europeo.



Si tratta di un tragitto per la costruzione di una visione inedita dell’unificazione europea – l’unica in grado di reggere al confronto con giganti dai piedi di acciaio come gli Stati Uniti, la Cina e la Russia – che va collegato con il quadro nazionale ed euromediterraneo. La manovra finanziaria approvata dal Senato mostra, al contrario, di privilegiare un ripiegamento all’interno dei nostri confini e una risposta neo-assistenziale ai problemi economici aperti nel Paese, senza ridurre la pressione fiscale sui produttori e sostenere l’incremento degli investimenti pubblici – il fondo per gli investimenti diminuisce di 5,4 miliardi nel triennio – e privati.



Nell’insieme delle norme vi sono interventi frammentari che riguardano i settori produttivi e i territori, ma il quadro generale che emerge è quello di un’assenza di strategie organiche per le imprese e il lavoro, come asse della crescita economica verso la quarta rivoluzione industriale, e per il Mezzogiorno, considerato non come un’area a sé stante, ma come l’ambito più adatto per la ripresa e lo sviluppo dell’intero Paese. Inoltre, nel “maxi emendamento” e nella manovra del Governo sono stati previsti tagli consistenti di risorse per le politiche industriali e una rimodulazione verso investimenti di limitata entità, che non favoriscono l’ammodernamento tecnologico del sistema produttivo italiano e frenano la prosecuzione del risveglio del Mezzogiorno degli ultimi anni.

In particolare, la ridefinizione degli interventi per l’impresa 4.0 (con l’affievolimento o l’abolizione dei principali strumenti per l’innovazione produttiva), la riduzione, anziché l’aumento, delle risorse residue per il credito d’imposta (la misura automatica che ha finora mobilitato 6 miliardi di investimenti delle imprese private nel Sud) e la grave diminuzione dei fondi di coesione (1,65 miliardi di minori cofinanziamenti nazionali per i fondi strutturali europei e di minore capienza di spesa l’anno prossimo per i programmi di investimento pubblico, in particolare per i Patti per il Sud) vanno in direzione contraria a quella della crescita economica. Così come emerge uno scarso interesse per i contratti e gli accordi di sviluppo, che si sono dimostrati, insieme al credito d’imposta, l’iniziativa di maggiore successo per la localizzazione di attività produttive nel Mezzogiorno.

Il rifinanziamento della decontribuzione per le nuove assunzioni, in misura contenuta, si sarebbe potuto accompagnare a decisioni più coraggiose e originali per la riduzione, anche solo in via sperimentale, del cuneo fiscale sul lavoro nell’industria e a un forte impulso agli investimenti nelle Zone economiche speciali, senza confonderle con altri interventi per la logistica. Tuttavia, se l’impianto economico della manovra rischia di ridimensionare il Mezzogiorno, confinandolo – con un provvedimento di mero trasferimento di reddito – all’interno di un’antica visione, subalterna al resto del Paese e di carattere assistenziale, con l’avvio della procedura per l’autonomia regionale differenziata nel Consiglio dei ministri del 21 dicembre, a sancire un impegno con il Nord più isolazionista, si apre un percorso gravido di incertezze per il futuro dell’Italia, non esclusivamente per il Sud, come ha messo bene in evidenza solo la Svimez.

Infatti, pur avendo fissato la scadenza della metà di febbraio per la presentazione delle proposte del Governo, l’assenza di un controcanto altrettanto deciso sulla prospettiva avviata per alcune regioni settentrionali, governate da maggioranze diverse, ha fatto finora prevalere un’unica impostazione delle scelte di decentramento, che non riguarda solo forme particolari di autonomia e competenze concorrenti, ma si riferisce a poteri, servizi essenziali (come la scuola e la sanità) e risorse nazionali, ammantati dalla retorica della devoluzione del “residuo fiscale”, e interessa soprattutto alcuni principi fondamentali, che segnano l’unità del Paese e l’uguaglianza di tutti i cittadini nei confronti dello Stato.

Il progetto dell’autonomia differenziata si avvia in modo formale e con l’ipoteca di una penalizzazione dei territori e degli italiani più deboli, in contrasto con le norme costituzionali e con la perequazione tra regioni prevista dal cosiddetto “federalismo fiscale”. Eppure, di fronte a questo scenario, la risposta di un “Mezzogiorno all’opposizione” sarebbe del tutto inefficace, motivando solo il revanscismo del vecchio rivendicazionismo meridionale e di una inconcludente retorica neo-borbonica. La riproposizione, in una versione aggiornata, della “questione settentrionale” dipende anche dagli atavici difetti dello sperpero delle risorse nel Sud e dal dispiegamento, in un passato cha ancora pesa, di risorse a pioggia con le politiche di sviluppo locale, oltre che dall’insofferenza verso l’inefficacia delle amministrazioni nazionali.

Il tema dell’autonomia, al contrario, dovrebbe far riflettere sull’origine e sugli esiti del regionalismo, sulla necessità di una sua riforma in termini di coordinamento delle strategie a dimensione sovraregionale e di ruolo degli enti a livello territoriale, in un “Paese troppo lungo”, come lo chiamava qualche anno fa Ruffolo paventando i rischi per l’unità nazionale. La questione di un nuovo regionalismo – recentemente proposto da alcune Fondazioni (come Astrid, per la Sussidiarietà e Magna Carta) – ha una diretta connessione con una nuova prospettiva europea, oltre che con il destino dell’Italia.

Per questo motivo, è solo con la ripresa di un’ampia discussione, di natura culturale, economica e istituzionale, da parte di nuovi protagonisti del Nord e del Sud che si possono creare le condizioni per un cambiamento di indirizzo. Solo in questo modo, è possibile contrastare un pensiero unico riduzionista, orientato alla chiusura in un universo lillipuziano, attraverso la scoperta di una nuova e più coraggiosa idea europeista, in grado di contemplare la dimensione dell’unione federale con quella della stabilità e della crescita economica. Solo in questo contesto, si può affermare l’esigenza di unire l’innovazione dell’intervento pubblico, rispettoso della libertà di impresa e promotore dell’evoluzione del lavoro, con la concezione di un Mezzogiorno moderno e produttivo, capace di valorizzare le proprie eccellenze e in grado di fare sistema, accettando le sfide della competitività e dell’efficienza, realizzando così l’obiettivo dello sviluppo e dell’occupazione in chiave di risorsa positiva e di opportunità per l’intero Paese.