Una nuova crisi finanziaria pare davvero alle porte. Servirebbe un miracolo, stando ai segnali che arrivano dai mercati. Quelli per addetti ai lavori, per tecnici. Non per il grande pubblico, ovviamente. Un miracolo. Oppure, un bel cambio di strategia politica della Fed. Basta con il rialzo dei tassi, dopo l’ultimo ritocco del 19 dicembre e, magari, un pensierino a qualche misura di sostegno, se la situazione dovesse precipitare in primavera. In tal senso, Donald Trump si sarebbe già mosso, anche se per interposta persona, visto che domenica scorsa il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, ha sentito il bisogno di confermare urbi et orbi di aver intrattenuto in giornata una conversazione telefonica con ognuno dei sei presidente delle principali banche statunitensi, al fine di ottenere rassicurazioni sui livelli di liquidità e rasserenare così i mercati. Di più, lunedì i contenuti di quelle chiamate sono stati riferiti in via ufficiale al Working Group presidenziale dedicato ai mercati finanziari, presieduto dallo stesso Mnuchin. Mossa preventiva o eccesso di cautela?



E a confermare grandi manovre in atto è stata poi, sempre nel weekend, la solita agenzia Bloomberg, la quale rendeva noto come la frustrazione per le scelte della Banca centrale unita ai continui rossi dei mercati avrebbero portato il Presidente a discutere addirittura il licenziamento di Jerome Powell. Il solito segretario al Tesoro ed ex Goldman Sachs, nonché sponsor della nomina dello stesso Powell a successore di Janet Yellen, Steven Mnuchin, ha quindi dovuto confermare alla stampa la contrarietà della Casa Bianca verso la normalizzazione del costo del denaro, ma ha negato decisamente che il presidente intendesse far fuori il numero uno della Fed. Vero? Falso? Poco cambia. Perché per un giubilato da Pennsylvania Avenue che per ora l’ha fatta franca, un altro è già caduto sotto la scure delle pulizie di primavera anticipate di Trump: il generale Jim Mattis, ormai ex capo del Pentagono, il quale ha rassegnato le proprie dimissioni dopo il voltafaccia relativo alle truppe statunitensi in Siria e Afghanistan. Un addio che pare non aver ferito troppo il Presidente, visto che con tweet d’imperio ha reso noto al pubblico che Mattis abbandonerà il suo ruolo a fine anno e non il 28 febbraio come anticipato e dal 1 gennaio a capo della Difesa siederà il suo attuale vice, Patrick Shanahan.



E sapete qual è stato il suo ultimo incarico, prima di entrare nello staff di governo? Vice-presidente senior della Boeing, uno dei principali contractor della Difesa. Insomma, l’uomo del complesso bellico-industriale, il paladino del warfare, dal 1 gennaio sarà a capo del Pentagono: non vi pare, l’ennesimo, straordinario esempio di lotta alle élites e all’establishment di Washington e di Wall Street da parte del presidente Trump? Eh già, cari lettori, una pagina ben poco edificante. D’altronde, non avendo le fette di salame sugli occhi o la malafede come unico riferimento, già il fatto che il ministro del Tesoro e tre quarti del gabinetto economico arrivino da Goldman Sachs o altre banche d’affari doveva far sorgere qualche piccolo dubbio sul carattere popolare e di cambiamento dell’amministrazione Usa.



Ma si sa, a volte certi particolari sfuggono all’attenzione. Come i condoni infilati nei maxi-emendamenti presentati a tarda notte. Se il titolo della Boeing e con esso l’intero indice Dow Jones, molto sensibili a caccia da combattimento e missili, cominceranno a viaggiare in controtendenza, avremo una prima riprova. Se poi, al netto del ritiro da Siria e Afghanistan, l’attività bellica Usa invece di cessare aumenterà, magari presso scenari più attigui e con compiti meno ufficiali, allora avremo la prova regina. Ma non facciamoci infinocchiare dalle apparenze. Almeno da qui all’ultima seduta di contrattazioni dell’anno. Perché se per caso, gli ultimi quattro giorni di negoziazioni dovessero vedere andamenti anomali rispetto a quella che nelle ultime settimane è stata la norma – ovvero crolli quasi sistematici, seguiti da altrettanto ciclici rimbalzi del gatto morto – potrebbe non essere merito (almeno, non ancora) della nomina di Patrick Shanahan. Bensì dell’inconsapevole contributo del parco buoi alla salvezza del grande casinò nell’anno nero per antonomasia, complici anche i bassissimi volumi tipici di fine anno.

Già, perché come ci mostra questo grafico, quello che sta per concludersi a livello di returns su tutte (e ripeto, tutte) le asset-classes denominate in dollari è stato l’anno peggiore in assoluto da quando vengono tracciate le serie storiche. Se infatti la percentuale di assets in negativo record finora era stata quella dell’84% registrata nel 1920, i 365 giorni che stanno per concludersi hanno segnato un rotondo 93%! Peggio della Grande Depressione, cari lettori! E la serie storica non è proprio di primo pelo, visto che è cominciata nel 1901!

Non avete trovato notizia di questo sui giornali? Nessun tg ve lo ha detto? Strano. E come il parco buoi potrebbe mettere una pezza, il classico “gol della bandiera”, a questa situazione nei prossimi pochi giorni di Borsa aperta del 2018? Semplice. In base alla legge di Murphy, i fondi pensione statunitensi dovranno in questo ristretto arco di tempo dar vita a un ribilanciamento programmato e statutario del proprio portafoglio di investimento, uscendo dai bond ed entrando – proprio ora! – nell’azionario. E sapete a quanto ammonta l’investimento? Qualcosa come 64 miliardi di dollari. In cinque giorni di trading, di fatto iniziati con la seduta di lunedì, operativa negli Usa rispetto alle piazze europee. Insomma, l’eventuale volatilità di fine anno non rappresenta nulla di sistemico, solo la sfortunata sorte di chi continua, come se la storia non insegnasse nulla, a gettare nel wc i sudati soldi dei lavoratori statunitensi nel casinò di Wall Street. Perché sfortunata? Ce lo mostra questo grafico, dal quale vediamo che i nostri amici pensionandi e pensionati non solo stanno entrando in giostra nel pieno dei crolli, ma anche della cosiddetta big rotation, ovvero della fuga di massa degli altri investitori dalle equities e verso i bond.

Strategia del salmone, molto contrarian. Altrove, infatti, il denaro lo si tiene stretto. Ma stretto davvero, come ci mostra questo grafico: sapete chi sta stoccando collaterale in dollari (denaro ma anche Treasuries e notes varie) nelle sue casse come se domani dovesse scoppiare la guerra? I dealers. E chi sono costoro? È presto detto: sono i cosiddetti market makers, ovvero intermediari che acquistano e vendono strumenti finanziari, rendendo noti, rispettivamente, prezzi e quantità. Praticamente, il banco al tavolo del casinò. Il quale, invece di giocare e dare le carte, risparmia, mette via le fiches per i tempi peggiori. Quasi quasi, fa un pensierino addirittura a chiudere bottega per un po’, invitando tutti ad accomodarsi al tavolo della roulette. Come i fondi pensione.

Il grafico parla chiaro: il livello di accumulazione di collaterale in atto è pari a quello dei giorni peggiori del 2008 e del 2011. Cosa significa? Che tutto quel collaterale non entra in circolo nel sistema, rimane chiuso nelle casseforti di quelli che – ontologicamente – dovrebbero invece operare da proxies del mercato, da cinghia di trasmissione. Cosa temono i market makers, per sentire il bisogno di restare così carichi di collaterale? Un enorme short-squeeze? Una margin call pressoché totale, roba da tramutare Lehman Brothers in Banca Etruria? O, peggio, cosa sanno di preciso che noi comuni mortali invece ancora ignoriamo?

Forse, uno degli elementi di preoccupazione maggiore arriva dagli ultimi dati di Goldman Sachs relativamente al mercato obbligazionario corporate statunitense. La scorsa settimana, infatti, il gigante del tabacco Altria ha subito l’onta del downgrade dal rating A, finendo nel limbo del BBB, ultimo gradino dell’investment grade prima del junk. Insomma, di per sé, già una brutta notizia, tanto che il bond dell’azienda ha reagito immediatamente alla notizia prendendo 50 punti base in un giorno. Ma c’è di peggio. Perché con gli 11,5 miliardi di debito portati freschi freschi in dote da Altria, l’universo delle ex star del rating A cadute in disgrazia in BBB ha raggiunto il controvalore record assoluto di 196 miliardi di dollari quest’anno, battendo anche il precedente primato del quarto trimestre 2015, quello dominato dalla crisi delle aziende del comparto commodities.

E se parte una catena di default obbligazionari e una sell-off di massa, il collaterale diventa oro. Anche perché il contagio verso le equities rischia di essere assicurato. E immediato.

(2- fine)