Ma come, Wall Street piazza un rimbalzone record, addirittura con il Dow Jones che chiude la seduta del 26 dicembre in rialzo di 1.000 punti, il Nikkei da buon cane di Pavlov completamente dopato e spinto dalle banche entrate in azione piazza un +3,9%, maggior rialzo intraday da due anni a questa parte e l’Europa delude così? Niente fuochi d’artificio a Milano come a Francoforte o Madrid, almeno stando alla parte di contrattazioni che ho potuto seguire prima di inviare questo articolo? Brillavano solo Londra sulle indiscrezioni di un aumento del sostegno parlamentare all’accordo stretto da Theresa May con l’Ue in vista del voto a Westminster del 14 gennaio e Parigi, sospinta paradossalmente dal dato relativo all’aumento record della cassa integrazione a causa delle proteste dei “Gilet gialli”, più 43mila unità: di fatto, Emmanuel Macron può prepararsi a un sereno Capodanno. Il nuovo ’68 è ufficialmente finito. Insomma, particolarismi. E una tantum.
Ma attenzione, quelli strani non siamo noi. Sia chiaro. Le Borse europee scontano criticità strutturali e reali, Milano ad esempio il pasticciaccio di Carige (controbilanciato da un altro evento una tantum, ovvero la performance prenota-scudetto del titolo Juventus dopo la sconfitta del Napoli a San Siro) che, se non affrontato debitamente e in tempo, rischia di mandare di traverso pane e Nutella al ministro Salvini. La follia vera è quella che si è consumata il giorno di Santo Stefano a Wall Street. E, per quanto possa sembrarvi paradossale, quella chiusura record è la prova provata che il peggio è davanti a noi, che il mercato è in bear market e che, soprattutto, la recessione rischia di farsi avanti a grandi falcate.
Mi spiego più approfonditamente. Nella seconda parte del mio articolo natalizio, uscita proprio il 26 dicembre, spiegavo chiaramente che non sarebbe stato affatto inusuale attendersi un mini-rally di fine anno in Borsa, anche di dimensioni notevoli. E così è stato. E sapete perché? Proprio per il motivo che riportavo nell’articolo: Dio benedica i fondi pensione! Quella che può apparire un’invocazione blasfema è invece il sunto migliore per descrivere quanto accaduto nella prima giornata di contrattazioni a Wall Street dopo la chiusura natalizia. Questi grafici mettono l’intera situazione in prospettiva: il programmato ribilanciamento monstre del portafoglio d’investimento dei fondi pensione statunitensi comportava infatti un acquisto di titoli azionari tra il 24 e il 31 dicembre per un controvalore di 64 miliardi di dollari. Il tutto, appunto in quattro giorni e mezzo di contrattazioni. Quindi, denaro garantito che sarebbe affluito principalmente sull’indice Dow Jones, quello di riferimento: il quale, infatti, ha segnato a Santo Stefano la crescita intraday maggiore della sua storia.
Ma non basta, perché la giornata sembrava preparata a tavolino. Dopo aver rovinato il Natale a un bimbo di 7 anni, dandogli di fatto del giovane problematico per il fatto di credere ancora a Babbo Natale ed essersi poi lamentato via Twitter di essere da solo alla Casa Bianca, Donald Trump aveva parlato con la stampa e le sue parole erano state chiare. Dopo aver rassicurato rispetto al posto di lavoro del segretario al Tesoro, Steven Mnuchin e a quello di Jerome Powell, il Presidente aveva lanciato un paio di segnali, uno palese e l’altro più sottile. Il primo era un consiglio per gli acquisti da piazzista navigato, un misto fra gramsciano ottimismo della volontà e più volgare certezza di un rimbalzone del gatto morto, grazie ai pensionati del Mid-West e della Florida: “Abbiamo grandi aziende in America, le più grandi di tutte. Per questo penso che questa sia un’enorme occasione per comprare, davvero grande”, ha dichiarato Trump. Poi, la frase più sibillina: «La Fed sbaglia ad alzare i tassi così velocemente, ma molto presto porrà rimedio». Auspicio? O certezza che Jerome Powell, pur di mantenere il suo posto, cederà alle pressioni della Casa Bianca?
Un solo dato: stando al mercato dei Fed Funds del 24 dicembre, a oggi le possibilità di un taglio dei tassi nel gennaio 2020 sono maggiori di quelle di un loro rialzo. Orizzonte apparentemente lontano, ma non per le tempistiche della finanza: significa che il mercato già oggi prezza l’inizio di una recessione conclamata – e, quindi, della risposta della Banca centrale Usa attraverso un ciclo di espansione monetaria – entro un anno. Ma come se l’abbinata fondi pensione-Trump non fosse stata sufficiente, a dare una mano agli indici a dar vita a quel clamoroso rimbalzo ci ha pensato la cosiddetta smart money, rivelatasi in questo caso tutt’altro che smart: ovvero, i Cta (Commodity Trading Advisors) e gli hedge funds. I primi passati in massa in posizione short e i secondi con l’esposizione netta al mercato attualmente al livello più basso da 3 anni a questa parte.
Questo grafico contestualizza il tutto: con gli shorts aumentati di colpo, la dinamo dell’accoppiata fra fondi pensione e Casa Bianca ha fatto scattare un colossale short squeeze che, a sua volta, ha innescato un trend auto-alimentate dei rialzi, già molto sostenuti da metà contrattazioni in poi. Nelle prime due ore, infatti, i primi 200 punti di rialzo del Dow Jones si erano polverizzati in pochi istanti di vendite da panico: poi, l’ingresso della “mano visibile” dei fondi pensione – forse un po’ in ritardo, rispetto alle attese – ha raddrizzato la situazione. Infine, le chiusure obbligate di quelle posizioni ribassiste hanno fatto il resto. Ma non basta ancora. Quanto avvenuto il 26 dicembre a Wall Street è palesemente fuori dall’ordinario e sintomo di una disconnessione di fondo del mercato, certamente non imputabile – come ormai è prassi – soltanto alle dichiarazioni in libera uscita di Trump o agli algoritmi che fanno impazzire gli indici.
Il giorno dopo aver patito la peggior perdita della storia per la vigilia di Natale, infatti, lo Standard&Poor’s 500 ha guadagnato 116,6 punti, il maggior rimbalzo dalla crisi finanziaria e secondo soltanto al +7% del marzo 2009, in piena campagna di turbo-rialzi del primo Qe della Fed. Qualche altra statistica sospetta? Eccone tre. Tutti e tre i principali indici statunitensi hanno guadagnato almeno il 4% nella seduta del 26 dicembre, un qualcosa che non avveniva dal 2011, oltretutto sia con il Dow Jones che con lo Standard&Poor’s solo frazionalmente distanti dalla quota psicologica del +5%. Secondo, la performance del Dow Jones è stata lo specchio perfetto di quella della vigilia di Natale, quando tutte e 30 le componenti comprese nell’indice andarono in rosso. Il 26 dicembre, tutte in rialzo. Prima volta che accadeva un fenomeno simile dal 2015 e solo la decima volta dal 2000. Terzo, per la prima volta in assoluto, il 99,8% dei 505 titoli quotati sullo Standard&Poor’s 500 ha chiuso la contrattazione di Santo Stefano in verde. Il primato precedente (99,6%) risaliva al 2011, in piena era Qe e vedeva in rialzo 498 degli allora soli 500 titoli quotati. E sapete qual è stato l’unico titolo a chiudere in rosso mercoledì? La Newmont Mining. In contemporanea con il calo dell’altro grande sconfitto in questa giornata di rialzi storici e pressoché generalizzati: l’oro, schiacciato dal dollaro arrivato a un passo dai massimi di quest’anno. Pessimo segnale, conoscendo la suscettibilità del bene rifugio per antonomasia, quello che tesaurizza le aspettative di crisi serie.
Che dite, a vostro modo di vedere, una performance così anomala può essere ritenuta un segnale di ritrovata salute del mercato? Donald Trump ha fatto il miracolo, spingendo gli americani a salire in giostra? Il rally di Santo Stefano è stato il classico segnale di all clear per tornare a investire in equities? La storia pare dire altro: rallies furiosi e irrazionali come questi, in entrambe le direzioni, sono molto più frequenti durante un mercato dell’Orso che del Toro. Ovvero, ribassista. La pensa così, ad esempio, Michael Antonelli, equity sales trader per la Robert Baird: «Quella a cui abbiamo assistito non è certo il tipo di price action che si presenta in un normale mercato rialzista. Ciò a cui abbiamo assistito è stato soltanto, in gran parte, un rally da copertura di shorts. Con questo non sto dicendo che siamo nella stessa situazione del 2008, almeno per ora, ma guardiamo proprio a quell’anno infausto: fra il 10 e il 13 ottobre, il mercato salì di quasi il 12% in un giorno. E fra il 27 e il 28 dell’11%. E sempre stato così: i mercati ribassisti danno sempre vita ad alcuni rallies molto estremi. Uno dei grandi motti di Wall Street è appunto che il rally legato a un bear market sembra molto più bello di come in realtà sia. Quindi, non mi stupirei affatto di qualche altro aumento del 3 o 4% in un giorno nel prossimo futuro».
Per Fred Hickey, direttore di High-Tech, «quella a cui abbiamo assistito è un tipo di volatilità che è insita nei mercati ribassisti. Il mercato era oversold nel breve termine e, quindi, prono a forti rallies di breve durata. Ma un rialzo di 1.086 punti come quello vissuto dal Dow Jones, anche se salutato con gioia e giubilo di qualcuno, vi assicuro che spaventa a morte altri investitori e li fa fuggire ancora più lontani. Questo perché scossoni così irrazionali dimostrano plasticamente come l’attuale ambiente di mercato sia davvero troppo pericoloso per investitori con avversione al rischio».
Non siete convinti del tutto? Pensate che qualcuno voglia nascondervi l’occasione d’acquisto della vita, ora che il mercato pare essersi sfogato con i tracolli di ottobre e le sfuriate invernali, fino a quella tombale della vigilia? Attenzione a ciò che cercate, perché potreste trovarlo. Per due motivi. Primo, ce lo mostra questo grafico, basato sull’elaborazione compiuta da Bloomberg di dati relativi ai precedenti otto mercati del Toro durante i quali lo Standard&Poor’s 500 ha vissuto rallies superiori al 2,5%: parliamo di oltre 120 occasioni. E prendendo solo il lasso temporale relativo al fallimento Lehman fino al marzo 2009, ovvero sette mesi all’incirca, abbiamo addirittura 13 giornate diverse in cui l’indice newyorchese ha piazzato rialzi superiori addirittura al 4%.
Guardate bene il grafico: il cluster più grande di questi eventi estremi si è verificato fra il tardo 2008 e l’inizio del 2009, prima del crollo del mercato e l’entrata in recessione globale da crisi finanziaria conclamata. Non basta ancora? Quando mancavano dieci minuti alla campanella di chiusura della seduta record del 26 dicembre, Bloomberg rilanciava la notizia in base alla quale una delegazione del governo statunitense si recherà la settimana del 7 gennaio a Pechino per colloqui con funzionari cinesi sul tema del commercio. La ciliegina finale sulla torta dell’ottimismo globale. Insomma, anche volendo Wall Street non poteva che chiudere in modalità record.
Resta un solo interrogativo, dopo questa iniezione di fiducia ed entusiasmo: quanti altri soggetti saranno obbligati a comprare 64 miliardi di dollari in titoli azionari, da qui in avanti e rendendo anche perfettamente noto al mercato l’arco temporale dei loro acquisti? Attenti a non farvi ingannare. La Fed sarà costretta a fare marcia indietro e questo innescherà certamente un rally, probabilmente alimentato anche dalla compressione dei rendimenti obbligazionari che farà tornare profittevole la pratica dei buybacks di massa (emetto debito a costo molto basso per finanziare riacquisto di miei titoli, facendoli salire di prezzo e abbassando il flottante), ma prima di arrivare alla stabilizzazione di quel trend, la vera missione statutaria dell’amministrazione Trump, toccherà farsi parecchi giri sulle montagne russe. E se non sai legarti bene e tenerti forte ai sostegni, precipiti di sotto.