“Tendenze, più che numeri, perché incertezze, non solo economiche ma anche politico-strategiche, e repentini cambiamenti in atto rendono lo scenario assai mutevole”, tanto che, “non avendo dei veri modelli cui riferirci, si tratta di previsioni fatte eroicamente”. Motivi di preoccupazione? “Il rallentamento tedesco, le politiche protezionistiche di Trump, il taglio degli investimenti, l’eccessivo debito dell’Italia. E una legge di Bilancio sostanzialmente inadatta ad affrontare shock recessivi”. Segnali di speranza? “Speriamo che i dati del 2019 siano migliori delle previsioni”, così risponde Mario Deaglio, professore di Economia internazionale all’Università di Torino ed ex direttore de Il Sole 24 Ore. Succede? “Sì, qualche strana volta succede. A fine 2016, per esempio, per il 2017 veniva data, e le stime erano del Fondo monetario, una crescita del Pil dello 0,9%; nel primo trimestre 2017 è stato ridotto a un +0,7%. Ebbene, abbiamo poi finito l’anno a +1,5% e la Banca d’Italia nel comunicare il dato definitivo ha pure corretto all’insù fino all’1,6%”.
Intanto, a fine 2018, gli indicatori dell’Italia hanno tutti svoltato in negativo: calo del Pil, produzione industriale in frenata, indici di fiducia di imprese e famiglie in discesa: l’Italia nel 2019 conoscerà una nuova recessione?
Spero di no. Sicuramente abbiamo, come tutti, dei problemi di rallentamento globale, e probabilmente in misura maggiore di molti altri Paesi, ma da lì a dire che volgiamo il Pil in negativo, ce ne corre ancora. Abbiamo una crescita stimata intorno all’1% e un rallentamento potrebbe portarci tra il +0,5% e il +1%, almeno stando alla situazione attuale, perché lo scenario può cambiare molto rapidamente anche per motivi non economici, ma politico-strategici. Tutto il mondo è nell’incertezza. Ma se il trend rimane quello attuale, non vedo perché dovremmo andare tanto giù.
In caso di shock o di episodi recessivi, quanto è “attrezzata” la legge di Bilancio 2019 per fronteggiarli?
Molto poco, perché le attrezzature più efficaci per contrastare una recessione sono, in primo luogo, gli investimenti in infrastrutture, la cui ricaduta sulle imprese italiane è molto forte, visto che le importazioni dall’estero si limitano sostanzialmente all’energia. In secondo luogo, servono gli investimenti delle imprese e poi i consumi privati. Tenendo conto che questa manovra non prevede fondi per le infrastrutture e gli investimenti delle imprese, che stavano salendo bene, adesso sono tutti incerti per mille ragioni, non solo interne, rimangono solo i consumi privati, ma la legge di Bilancio – sempre che riescano ad applicarla, perché una manovra non si realizza dall’oggi al domani – dovrebbe tutt’al più mettere qualche soldino in mano alle persone, anche se alla fine la componente di importazione sarà alta, visto che chi ha redditi bassi tende ad andare ad acquistare dai cinesi più che dagli italiani. A essere ottimisti, poi, queste misure entreranno in azione solo nel secondo o nel terzo trimestre, e quindi non potranno subito beneficiare milioni di persone, come è stato detto.
Anche la legge di Bilancio 2019, come molte altre Finanziarie del passato, taglia gli investimenti, nonostante le promesse. Quanto futuro ci stiamo giocando con questi rinvii?
Difficile quantificarlo, sicuramente aggraviamo il deficit di infrastrutture. In base a una statistica dell’Unione europea, mediamente un edificio pubblico in Italia viene ripristinato o riqualificato ogni 80 anni, nel resto della Ue ogni 30-35 anni. Quindi abbiamo ospedali, scuole, commissariati di polizia e quant’altro in condizioni precarie. Quanto questo incida sullo sviluppo, è difficile stabilirlo, ma a parità di condizioni incide. Purtroppo noi non siamo a parità di condizioni: essendo bravi solo ad arrangiarci, riusciamo a colmare questa perdita in minima parte.
Sul fronte dei consumi e dei conti pubblici, le clausole di salvaguardia previste per il 2020 e il 2021 sono un’ipoteca pesantissima?
Intanto occorre dire che le clausole previste al di là di un anno, poi vengono sempre ridiscusse, però restano al momento un’ipoteca importante, anche se non ancora una certezza. A me, piuttosto, fa paura quel che sta avvenendo in Germania.
L’economia tedesca che sta rallentando?
Non solo. E’ vero che nel terzo trimestre ha fatto registrare un -0,2%, dovuto soprattutto all’industria dell’auto, e se nel quarto ci fosse ancora un segno negativo ci sarebbe davvero di che essere preoccupati. In più la Germania sta affrontando un cambio di leadership, l’attuale maggioranza di governo non è in grado in questo momento di prendere decisioni davvero incisive e il Paese potrebbe andare incontro a nuove elezioni politiche. Se noi solleviamo il coperchio ai 5 maggiori Paesi europei – Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia e Spagna —, sotto si scoprono tante cose che non vanno.
Secondo la Bce, il debito italiano potrebbe contagiare tutta l’Europa. Siamo davvero gli unici grandi malati del continente?
No, direi che tutta l’Europa è malata. Ma c’è una differenza: noi abbiamo un altissimo debito pubblico. Gli altri sono malati, ma con un debito più basso.
Questo cosa comporta?
Che di debito italiano ce n’è in giro molto ed è una delle più importanti materie prime dei mercati finanziari europei. Se questo debito venisse messo in discussione, tutte le banche, italiane in primo luogo, ma anche quelle estere che hanno rilevanti investimenti nel debito pubblico italiano, dovrebbero segnare delle perdite o accantonare cifre molto consistenti per farvi fronte. Questo è il vero rischio.
Il reddito di cittadinanza verrà probabilmente ridisegnato coinvolgendo le imprese perché assumano nuovo personale e quota 100 per le pensioni è stata pensata proprio per svecchiare i lavoratori in attività. Funzioneranno queste due misure per rilanciare l’occupazione, che già dopo il decreto Dignità non ha dato segnali confortanti?
Sostanzialmente direi di no. Continuo a non capire perché non si è preso quel che c’era già e si è lavorato su quello. Il reddito di inclusione, infatti, funziona dall’inizio dell’anno, tocca un milione e mezzo di persone, che mediamente prendono 380 euro al mese a testa. Non è poco. Invece si fa una cosa nuova, il reddito di cittadinanza, probabilmente con vincoli maggiori, almeno sulla carta, e poi bisognerà vedere come funziona, visto che i beneficiari dovrebbero andare a cercarsi un lavoro. Ma in una buona parte d’Italia tutto questo è molto difficile perché di occasioni di lavoro ce ne sono poche o per nulla. Se applicato seriamente, il reddito di cittadinanza ha dei forti limiti; se applicato non seriamente, è una misura poco efficace, perché distribuisce spiccioli, che sì stimoleranno un po’ i consumi, ma una parte – come ho già detto – verrà dall’estero, e quindi gli effetti saranno ridotti.
E quota 100?
Tutte le statistiche dicono che, a fronte di un esodo di lavoratori anziani, non si verifica una sostituzione di uno a uno. Le imprese probabilmente riorganizzeranno la produzione con innovazioni 4.0 o con robot e il numero di assunzioni sarà probabilmente molto più basso. Forse il tasso di sostituzione non sarà neppure di 2 a 1. Piuttosto è venuto il momento che tutto questo Paese inizi una riflessione, pacata e seria, sul fatto che sta cambiando la natura del lavoro. La crisi del posto fisso a tempo indeterminato è segno anche di nuove tecnologie, non solo di recessione, e i tempi di investimento delle imprese si sono fatti più brevi, difficile trovare programmi che vadano oltre i 5 anni. Bisogna quindi ridisegnare la rete della sicurezza pensionistica e del welfare. Tutto il resto sono solo dei pannicelli caldi.
Il 2018 è stato caratterizzato da diffuse tensioni commerciali. Secondo lei, nel 2019 dazi e protezionismi potrebbero continuare e magari acuirsi?
Sicuramente sì. Se Trump continuerà nella sua strategia di stipulare accordi solo bilaterali invece di trattative più generali, molto probabilmente si genererà un rallentamento degli scambi commerciali.
Con quali effetti sul nostro export?
Anche noi siamo coinvolti in questo. E pensando all’Europa, non dimentichiamoci della Brexit. Se mai si arrivasse a un’uscita del Regno Unito senza un accordo, sarebbe una scoppola molto forte per Londra, ma sarebbe non irrilevante anche per noi. I dati dell’export, al momento, dicono però che non abbiamo risentito troppo del rallentamento del commercio globale.
Perché?
Perché in molti casi, come del resto cercano di fare tutti, aggiriamo l’ostacolo. Ci sono cioè Paesi terzi che fanno da intermediari. Ecco perché, per esempio, gli scambi con la Russia non sono in cattivo stato. Certo che, se fra 30 giorni Trump confermerà la stretta negli scambi con la Cina, la situazione cambierà profondamente.
Il prossimo 21 gennaio il Centro Einaudi presenterà a Milano il suo XXIII Rapporto sull’economia globale e sull’Italia dal titolo “Il mondo cambia pelle?”. Siamo preparati ad affrontare questa mutazione?
La mia risposta è un rotondo no. Siamo stati estremamente occupati con il breve periodo, abbiamo sempre pensato in base a scadenze elettorali ravvicinate, dal 2011 in poi, ragionando sui 18 mesi successivi e non sui 18 anni successivi. Un ragionamento serio su come saremo, in un quadro mondiale in rapido cambiamento, non l’ha fatto nessuno. Noi oggi rispondiamo solo a stimoli congiunturali, e colpevolmente non sappiamo andare oltre.
(Marco Biscella)