Alla fine, la montagna del G20 di Buenos Aires ha partorito il topolino. E non intendo a livello di risultati generali del vertice, dove le rinnovate tensioni fra Russia e Ucraina l’hanno fatta da padrone, portando tutti a propendere per un approccio soft che evitasse rotture sul documento finale riguardo temi come protezionismo e ambiente (vittoria della linea statunitense, di fatto), bensì del grande tema, il bersaglio grosso. Ovvero, la guerra commerciale fra Usa e Cina, di cui si doveva discutere in un cena ufficiale fra Donald Trump e Xi Jinpingtu. La quale, con il passare delle ore, ha visto sempre più ridimensionarsi la sua portata epocale, ufficialmente con la scusa di un non meglio precisato “rispetto” per la morte di George Bush senior: ristretta nei tempi, anticipata nell’orario, ampliata nella platea di partecipanti anche a livello di funzionari medio-alti. Insomma, non più il meeting al vertice ma qualcosa di ben più interlocutorio e diplomaticamente formale.
Alla fine, la svolta, se così si può chiamarla: le tariffe del 10% su merci per un controvalore di 250 miliardi di dollari restano in vigore, ma nessuna implementazione del regime tariffario dal 1 gennaio, bensì tre mesi di cessate il fuoco durante i quali negoziare. Un compromesso, classico. Nulla di epocale. Ma meglio di una rottura. C’è però una nota stonata nell’intera vicenda, capace di mettere sotto un’altra prospettiva non solo l’accordo raggiunto, ma la stessa disputa in atto: quell’epilogo era già scritto.
Non ci credete? Guardate qui, è la parte del report di Goldman Sachs della scorsa settimana dedicata alla questione, con i vari scenari prospettati dalla banca d’affari. Il più probabile? Quello che è divenuto realtà, che vedete sottolineato. Il quale, ovviamente, metteva in relazione il possibile sbocco politico alla crisi con la reazione della Borsa: come vedete, lo scenario poi divenuto realtà era ritenuto in grado di portare lo Standard&Poor’s a 2800 punti. Sapete a quanti punti ha chiuso venerdì, quando il G20 era alle battute iniziali? A 2760. Cosa significa? Che il mercato non solo auspicava quel risultato, ma già lo prezzava ampiamente. Insomma, una farsa. Come d’altronde l’intera vicenda della guerra commerciale, visti i risultati reali e sul campo che sta ottenendo: di fatto, fungere da perfetto alibi emergenziale per crisi strutturali delle due economie che, politicamente, non ci si può permettere di ammettere candidamente con l’opinione pubblica.
Trump ha patito e parecchio la questione General Motors, quei 14mila lavoratori lasciati a casa dalla sera alla mattina e Xi Jinping sta facendo sempre più i conti con tensioni sociali senza precedenti legate al mercato immobiliare e ai suoi prezzi in caduta libera. I quali, giova ricordarlo, sono legati a doppio filo ai mutui erogati da società finanziarie opache del sistema bancario ombra, lo stesso per sgonfiare il quale la Pboc ha di fatto smesso di fungere da bancomat globale attraverso l’impulso creditizio. Una grana da qualche triliardo di dollari. E poi la Borsa: al netto dell’effetto psicologico e politico a breve termine della “vendetta di classe” rappresentato dai cali di ottobre e dallo sgonfiamento della bolla Fang al Nasdaq, occorre che il giochino cali ma non vada fuori controllo, perché altrimenti sono guai. E, magari, la gente si accorge – quando i titoli che gli hanno rifilato perdono il 40% di valore in una settimana – che i record di Wall Street tanto decantati dal presidente, in realtà non sono altro che un enorme schema di Ponzi che ora si è inceppato: nel caso dell’originale, la crisi arriva quando non entra più flusso di denaro di nuovi investitori con cui pagare gli interessi dei precedenti.
Per Wall Street, invece, la dinamica si sostanzia nella fine dei rialzi artificiali garantiti dai buybacks di massa delle grandi corporations, le quali per ringraziare a dovere la Casa Bianca per il mega-sgravio fiscale, hanno utilizzato oltre la metà dei loro soldi off-shore rimpatriati per essere sanati a costi irrisori proprio per operare riacquisti di titoli propri, la vera benzina a 1000 ottani che ha tenuto in alto per trimestri la Borsa statunitense. E adesso? Adesso rischia di diventare un guaio. Serio. Perché signori, quelle che sto per mettere in fila, sono tutte aziende che sul finire del mese di novembre hanno annunciato tagli occupazionali negli Usa, al netto della già citata General Motors e molte delle quali entro fine anno (un brutto Natale, quindi, per qualche decina di migliaia di potenziali elettori working class del Presidente): Blue Apron, Bombardier, Reuters, Disney, Starbucks, Nbc Universal, Cisco, Western Sugar, CA Technologies, Union Pacific, Haagen Dazs, Boston Scientific, Wells Fargo, Ikea, Pfizer, Ford e Hasbro. Diciamo che non si tratta proprio del salumiere e del tabaccaio all’angolo che lasciano a casa il garzone e il barista, perché strozzati da una cartella di Equitalia, cosa dite?
E diciamo che, al netto del disprezzo per la vecchia politica e la fiducia (mal riposta) in Trump, diventa sempre più provante continuare a credere nella favoletta dell’economia che scoppia di salute, quando giganti di questo genere tagliano forza lavoro e ristrutturano al di fuori di un periodo di recessione conclamata, non vi pare? Ma, immagino vi sarete accorti, la narrativa sul miracolo statunitense sta cambiando anche in Italia, loro malgrado anche gli agit-prop (a vario titolo e per varie ragioni) più indifferenti alla vergogna e al ridicolo del confronto con la realtà, cominciano a parlare di crisi globale, rallentamento economico generalizzato, addirittura rischi recessivi: alla buon’ora, ben svegliati! Ma si sa, occorreva sposare Trump per poter usufruire del corredo ideologico della bontà dell’indebitamento e del deficit allegro, ovviamente da declinare in nome e in difesa della manovra di questo Governo ormai in formato Armata Brancaleone: poveracci, che brusco risveglio deve essere stato per loro e i loro roboanti attestati accademici appesi al muro in bella vista!
E sapete perché in realtà serve una tregua? Ce lo mostrano questi due grafici, contenuti guarda caso nel medesimo report di Goldman Sachs pre-G20 e dedicato alla guerra commerciale. E cosa ci dicono? Il primo è chiarissimo, ci mostra come il commercio bilaterale fra i due giganti rappresenti solo una minima parte del controvalore totale degli scambi di entrambi, quindi la guerra fa rumore solo per le dimensioni relative dei due “combattenti”: è come il wrestling, fa impressione perché sono due colossi ad affrontarsi. Ma tutti sanno che è una finta, che i pugni e le sberle sono fasulle. Il secondo è più interessante, perché ci mostra come a fare veramente male potrebbe essere – stante i numeri totali di import/export – una reazione statunitense verso le importazioni di automobili, in testa quelle europee e giapponesi. Guarda caso, prima del G20 Trump ha minacciato proprio questo, affondando il comparto. E nel pieno della bufera che sta colpendo Renault e il conglomerato franco-nipponico di cui fa parte. E, soprattutto, toccando poco o nulla la Cina, consumatore dai grandi numeri (seppur in calo) ma non produttore di veicoli.
E qualcuno ha voluto anche quantificare il potenziale di quell’arma carica in mano a Trump. Stando agli analisti di Barclays, un’escalation del conflitto commerciale globale che veda il presidente statunitense Donald Trump aumentare le tariffe sul settore automobilistico europeo potrebbe costare fino a 75 miliardi di dollari alla crescita dell’eurozona l’anno prossimo. Se Trump dovesse imporre tariffe del 25% sulle importazioni di automobili europee negli Stati Uniti, potrebbe togliere fino a 0,4 punti percentuali di crescita nell’area della moneta unica nel 2019: l’equivalente, appunto, di circa 75 miliardi di dollari di produzione persa. «Le tariffe più elevate per le automobili europee sono state citate direttamente e rimangono quindi una seria minaccia per le riunioni del G20», ha affermato il team di Barclays giovedì scorso, sottolineando che a oggi «esploriamo uno scenario in cui gli Stati Uniti aumentano le tariffe delle autovetture dell’Ue dal 2,5% al 25%. Questo comporterebbe un calo delle esportazioni nette dell’area dell’euro di circa il 2%, abbassando la crescita del Pil dell’area euro di circa 0,1 punti percentuali grazie all’impatto diretto del commercio sulla crescita», si legge nella nota.
La banca britannica stima inoltre che questo sviluppo ridurrebbe di conseguenza la crescita stimata nell’area dell’euro dall’1,6% all’1,2% nel 2019. E attenzione: «Un tale calo della crescita del Pil, potrebbe costringere la Banca centrale europea a una risposta politica». Ma guarda un po’, il casus belli che serve a Draghi per dire scusate, ci siamo sbagliati, senza che la Bundesbank abbia nulla da obiettare! Che strano, non vi pare? E che permetterebbe a Washington e Pechino di guadagnare ancora un po’ di tempo prezioso per le proprie Banche centrali, sperando che il combinato di Bank of Japan ancora operativa e Bce che rivede la sua politica, garantiscano un boost ai mercati sufficiente a tirare la prossima primavera senza dover compiere rivoluzioni. Quindi, non solo l’amministrazione Trump sulla questione della guerra commerciale con Pechino sta operando come se seguisse pedissequamente i “consigli” di Goldman Sachs, ma, guarda caso, lo sviluppo ottenuto dal colloquio di Buenos Aires rischia di fare soltanto due grandi vittime: le economie di Ue e Giappone, lasciando pressoché intatte quelle che sono formalmente parti in causa.
E sapete un ulteriore perché a questa dinamica? Ce lo dice questo ultimo grafico, il quale ci mostra come – nonostante lo stimolo fiscale abbia ancora potere di controbilanciamento dell’inflazione reale e dell’erosione del potere d’acquisto degli americani per un paio di trimestri – adesso sia giunto il momento di far tirare il fiato ai conti macro e agli squilibri, altrimenti più che la bilancia commerciale, sarà la narrativa politica dell’America great again e della lotta contro le élites e a favore dei lavoratori americani ad andare in crisi: in ottobre, il deficit commerciale Usa è infatti peggiorato, arrivando a 77,1 miliardi contro i 76,3 di settembre, il record massimo dell’era trumpiana. E se le importazioni sono cresciute dello 0,1% in ottobre, l’export è sceso dello 0,6%.
Ultima considerazione. Qual è la vera battaglia, il vero nodo per l’amministrazione Trump? Giocare di sponda con la Fed al poliziotto buono e quello cattivo per arrivare, di fatto, a un bello stop all’aumento dei tassi e, sul medio-lungo periodo, a un po’ di nuovo Qe. E chi è l’anello di raccordo fra Donald Trump e Jerome Powell? Steven Mnuchin, segretario al Tesoro. Ed ex Cio di Goldman Sachs, oltre che socio-fondatore con George Soros della Sfm Capital Management nel 2003. Ancora convinti della barzelletta del sovranismo che combatte le élites in nome del 99% messo in crisi e sfruttato dall’establishment finanziario?
P.S.: Vado alla cieca, sto scrivendo queste righe di post scriptum alle 17.47 di domenica pomeriggio: se per caso stamattina, mentre leggete l’articolo, i notiziari stanno dando conto di una chiusura brillante delle piazze azionarie cinesi, ovviamente legando il fatto all’esito dell’incontro al G20, fate loro una pernacchia. Perché il motivo risiede nel fatto che, poco fa, la China Financial Futures Exchange ha abbassato i requisiti di margini per il trading sugli indici, rispettivamente del 10% per il CSI300 e l’SSE50 e del 15% per il CSI500, primo taglio del genere dal settembre 2017. Un vero invito ad investire, a salire in giostra. Sintomo che Xi Jinping ha imposto una condizione: prima ci si goda il rally natalizio e il ricasco di consenso nell’opinione pubblica, poi si prenderanno le decisioni difficili. Ma attenzione, se invece non sarà stata festa a Shanghai e a Shenzhen, allora è sintomo che il problema è più grave e necessita una cura da cavallo e non solo un antibiotico. E, soprattutto, immediatamente.