I gestori di patrimoni stanno frettolosamente sistemando i conti di un anno difficile, alla vigilia di una stagione che si annuncia non meno complessa. Si spiegano così gli sbalzi dei listini degli ultimi giorni, all’insegna di una volatilità estrema che ha visto pesi massimi del calibro di Apple o Microsoft andare su e giù con oscillazioni più consone a titoli ben più leggeri. Ma oscillazioni non meno impressionanti hanno interessato il petrolio, sballottato all’ingiù nonostante l’embargo a danno dell’Iran, che per ora non ha provocato i danni sperati da Donald Trump.
Tra i guru della finanza mondiale ben pochi, a differenza di un anno fa, si spingono a previsioni positive. Ma tanta cautela, visto com’è andata, non è necessariamente un male. Il 2018 si sta per chiudere con una perdita intorno al -12%. Salvo ravvedimenti dell’ultima ora, rischia di essere l’anno peggiore dal 2008, l’anno del crac di Lehman Brothers, quando le Borse mondiali accumularono un drammatico -43%. Per Piazza Affari si profila un calo attorno al 17%, un’ipoteca pesante per la prima parte del prossimo anno che si apre con una lunga serie di incertezze e una domanda inquietante sullo sfondo: il mondo sta andando in recessione?
Una rilevante serie di indicatori sembra confermare questi timori. Il rallentamento delle principali economie è ormai tangibile: dopo la Bce, anche la Fed ha aggiustato le previsioni di crescita del Pil Usa 2019 al 2,3% dal 2,5%, un dato che sicuramente andrà rivisto in base a come andrà la vicenda relativa allo shutdown, cioè lo stop alle attività del bilancio federale per il braccio di ferro sul Muro con il Messico. La frenata cinese, intanto, è probabilmente più violenta di quanto non appaia dalle statistiche ufficiali. Gli acquisti degli operatori convergono verso i “paradisi sicuri”: l’oro, lo yen, il franco svizzero, tradizionale termometro della propensione al rischio. Stesse indicazioni in arrivo dall’area euro: frena l’inflazione tedesca e il modello di crescita d’oltre Reno, basato sull’export, segna il passo.
Anche la legge dei grandi numeri sembra congiurare per l’arrivo di una recessione: sono passati 126 mesi, quasi un record storico, dalla crisi di Lehman Brothers. Non stupisce, perciò, che le banche centrali, Fed in testa, vogliano attrezzarsi in vista del rallentamento che prima o poi arriverà. Nonostante la rabbia di Donald Trump, consapevole che il buon andamento di Wall Street è forse la carta migliore per il suo indice di gradimento.
Insomma, non mancano le ragioni per un rallentamento dei mercati finanziari. Negli ultimi dieci anni, in particolare, le Borse hanno potuto contare sul sostegno costante delle banche centrali che hanno fornito costante ossigeno a un’economia che aveva necessità di una stampella. Oggi si passa dal Qe, cioè gli acquisti di carta per finanziare il sistema, al Qt (Quantitative Tightening) cioè il ritiro della liquidità in eccesso e la creazione di un cuscinetto da utilizzare in caso di crisi futura. Ma questo non significa recessione o, peggio, crollo della Borsa Usa.
La Fed, infatti, resta convinta del permanere di un buon livello di crescita per il 2019 e al tempo stesso rassicurata sul fatto che l’inflazione, nell’orizzonte prevedibile, non sarà un problema, soprattutto dopo il calo del petrolio. Di qui la prospettiva di un rallentamento pilotato dei mercati, complice il calo dei profitti rispetto a quelli eccezionali di un anno fa che hanno sostenuto l’acquisto di azioni proprie delle società. La Borsa, perciò, potrebbe al più procedere al piccolo trotto. I listini vengono del resto incoraggiati a salire solo quando si vuole spingere l’economia, come vorrebbe Trump ma non la banca centrale che non risponde solo al Presidente.
Ben diverso il quadro dell’Eurozona che si sta definitivamente congedando dal Quantitative easing, dopo quattro anni di acquisti sui mercati da parte della Bce, che ha immesso nell’economia 2.573 miliardi di euro che, complici la politica di stretta fiscale adottata dalla Comunità, non si sono però tradotti in investimenti di analoga importanza nelle infrastrutture o nel finanziamento della ricerca e dell’istruzione. La sensazione è che il Vecchio Continente, stressato dalla Brexit e incapace di sviluppare una politica comune di crescita, altro non possa che proseguire in una politica di basso costo del denaro sufficiente a far galleggiare l’economia ma nulla più.
Piazza Affari, insomma, dopo un anno di ribassi, non farà sfracelli, ma potrebbe evitare tonfi dolorosi. Meglio, per ora, restare liquidi.