Per tratteggiare le prospettive dell’anno che sta per iniziare, è utile dare un’occhiata all’andamento di quello che sta per terminare. Quando saranno disponibili tutti i consuntivi, si vedrà verosimilmente che il mondo ha avuto una sola locomotiva: gli Stati Uniti d’America. Gli Usa sono cresciuti a oltre il 4% nel 2018, trainando il resto dell’economia internazionale, compensando il rallentamento dell’Europa e quello ancora più forte della Cina. È forse, però, l’ultimo anno in cui l’economia mondiale può contare sul motore americano. Terminano gli effetti degli sgravi fiscali. E, quel che più conta, si sono esauriti i “dividendi della fine della guerra fredda”: trenta ani fa, gli Stati Uniti sono stati in grado di cogliere, meglio di qualsiasi altra economia, l’opportunità di riconvertire a fini di crescita e sviluppo le enormi risorse destinate per decenni alla tecnologia militare (“le guerre spaziali”).
La fine del dinamismo americano – numerosi centri di analisi economica prevedono gli Usa in recessione nel 2020 – staglia una nuvola nera sul resto del mondo e, in particolare sull’Italia, dove il 2018 è iniziato con presagi positivi (grazie a una leggera crescita nei primi due trimestri) per chiudersi con una stagnazione e i primi segni di una recessione.
È in questo quadro che occorre esaminare se e in quale misura la politica economica del Governo in carica appare in grado di evitare una nuova crisi dell’economia reale, dopo due recessioni e dieci anni in cui il Pil pro-capite non è aumentato, ma anzi leggermente diminuito, e le differenze di reddito e di opportunità si sono fatte più marcate.
Le vicende (confuse e disorientanti) dell’allestimento e dell’approvazione della Legge di bilancio non inducono all’ottimismo. Proprio il giorno in cui la legge stava per essere approvata dalla Camera (quasi senza dare spazio a un dibattito sui suoi contenuti), il Bollettino della Banca centrale europea avvertiva l’eurozona dei rischi per l’intera Europa dell’elevato debito pubblico italiano e di una manovra economico-finanziaria marcatamente divergente dagli impegni presi con gli altri partner. In una nota – non è stata resa possibile l’audizione di rito -, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio ha sottolineato come la Legge di bilancio quale allestita (e approvata) può spingere l’Italia verso una nuova recessione.
Il ministro dell’Economia e delle Finanze si dice certo che il Pil dell’Italia crescerà dell’1% nel 2019 (in ottobre aveva assicurato che sarebbe aumentato dell’1,5%), ma né ora, né allora fornisce alcuna indicazione sulle specifiche dei dati e della strumentazione econometrica utilizzata. Si ha l’impressione che si tratti più di un pio desiderio (per dare l’impressione che sulla carta i conti tornino) che di una stima che abbia qualche base economica.
In primo luogo, la manovra induce alla recessione perché finanzia in deficit spese correnti in grande misura di carattere assistenziale e non utilizza la leva dell’investimento pubblico per attivare nel breve periodo fattori di produzione non utilizzati e contribuire nel medio e lungo al miglioramento della produttività. C’erano alternative? Centri studi come Economia Reale, il Centro Europa Ricerche, Prometeia e altri (nonché le maggiori istituzioni internazionali e il gruppo dei venti istituti stranieri privati di analisi econometrica detti “del consenso”) le hanno individuate in una ristrutturazione e revisione della spesa pubblica (anche mettendo a frutto le indicazioni della Commissione ministeriale sulle tax expenditures) al fine di ridurre la spesa corrente e incoraggiare invece quella in conto capitale. Governo e Parlamento hanno, invece, preso una strada differente che, nel breve termine, secondo le prime stime, abbasserà la crescita a meno dello 0,5% nel 2019 e potrà portare a un tasso negativo dell’andamento del Pil.
Se il quadro politico non si chiarirà, prima o dopo le elezioni europee del prossimo maggio, le due forze che reggono il Governo, ma che sono espressione di “blocchi sociali” differenti e contrapposti, potranno, per un po’, prendersela con i “poteri forti nazionali e internazionali” e con il “destino cinico e baro”, ma vedranno presto acuirsi i loro contrasti. Ma ciò non vorrà necessariamente dire una politica economica di migliore qualità.