«Genova tornerà più forte di prima in pochi mesi. Al massimo, anni». È l’ultima, impagabile uscita del ministro Danilo Toninelli, un uomo che da solo rappresenta la giustificazione ontologica del nostro spread fuori controllo. Lo guardi al lavoro, lo ascolti parlare e, se per caso hai ancora qualche Btp in portafoglio, lo scarichi a qualsiasi prezzo, pur di liberartene. Ma attenzione, signori. Perché c’è di peggio al mondo. E di ben più grave e serio del nostro farsesco ministro dei Trasporti. Al netto del fatto che se anche Il Sole 24 Ore ha finalmente “scoperto” che finora la guerra commerciale si è risolta in un esercizio di supremo autolesionismo per gli Usa significa che ormai la pantomima ha perso decisamente di smalto nella sceneggiatura, lunedì i mercati globali sono andati in rally e, ovviamente, la narrativa ufficiale ha giustificato questo trend rialzista proprio con la tregua di 90 giorni nella disputa fra Stati Uniti e Cina sancita al G20, cui si è andato a unire il balzo del prezzo del greggio in vista della riunione dell’Opec e dei ribaltoni di alleanze a essa connessi. Ma a mandare gli indici in orbita, ci ha pensato l’ennesimo tweet a notte fonda di Donald Trump, il quale annunciava trionfante la decisione della Cina di “ridurre e rimuovere” le tariffe sulle auto statunitensi importate, sottolineando come attualmente tali dazi siano addirittura del 40%. Boom!



Ora, guardate questo grafico, il quale ci mostra la reazione del comparto automobilistico sull’indice Standard&Poor’s: prima, schizzato alle stelle. Poi, piatto. Insomma, la classica reazione del buy first and ask later: insomma, prendiamola per buona ma non esageriamo nell’entusiasmo. Come mai? Per la semplice ragione che quella notizia che ha garantito un supporto fondamentale agli indici già in rialzo del post-G20 (e grazie al taglio dei requisiti di margini del regolatore cinese) è una fake news, come direbbe proprio il buon Donald Trump!



E a confermarlo ci hanno pensato due fonti che più ufficiali non si può, ancorché in maniera tale da tramutare Danilo Toninelli in un assoluto dilettante. O, peggio, in un politico credibile. Sapete infatti come ha risposto alle domande della stampa riguardo maggiori chiarimenti in merito Larry Kudlow, consigliere economico della Casa Bianca? Che «per quanto ho capito, la Cina rimuoverà le tariffe sulle auto che importa dagli Usa». Ha usato proprio questa formula, in my understanding, salvo poi tramutarla nel verbo assume. Poco cambia: lui ha capito, ma non è detto che la Cina lo abbia detto. O, più importante, che poi lo faccia davvero. Ma non basta, perché a gettare ulteriore confusione sul mercato, giustificando la frenata del comparto auto dopo l’euforia iniziale, ci ha pensato poi Peter Navarro, assistente del Presidente e Direttore della politica industriale e commerciale statunitense. Insomma, non uno che era a Buenos Aires in gita. E cos’ha dichiarato al riguardo? Che l’argomento certainly came up in Buenos Aires. Ovvero, che è saltato fuori, che se ne è parlato, che era sul tavolo. Ma non che ci sia un accordo ufficiale in merito. E, infatti, interpellato al riguardo, il portavoce del ministro degli Esteri cinese, Geng Shuang, ha opposto un no comment all’argomento riguardante le tariffe automobilistiche.



Insomma, diciamo che in 45 anni di vita ho visto accordi meglio riusciti. E, soprattutto, confermati e rivendicati in maniera più ufficiale. Ma l’importante era vendere la notizia e, soprattutto, che si tramutasse in dinamo dei rialzi azionari: il giorno dopo la gente ricorda la chiusura degli indici, mica i motivi che li hanno fatti salire. Un’enorme, colossale cortina fumogena sino-americana. La quale, state certi, andrà avanti ancora, visto il successo di pubblico riscosso finora.

Ad esempio, sapete cosa sarebbe dovuto accadere oggi a Washington? Utilizzo questa formula perché non avverrà: Jerome Powell, numero uno della Fed e uomo del destino, avrebbe dovuto tenere un’audizione di fronte al Comitato economico congiunto Camera-Senato del Congresso. Ovviamente, l’argomento sarebbe stato l’andamento dell’economia statunitense e mondiale, ma, anche, la politica di normalizzazione del costo del denaro. Volgarmente parlando, il rialzo dei tassi e la sua traiettoria. E perché non avverrà? Perché da Buenos Aires, dove era giunto da poco per partecipare al G20, Donald Trump ha deciso in fretta e furia che la giornata di lutto nazionale per la morte di George Bush senior sarà proprio oggi, 5 dicembre, giorno in cui la salma, dopo tre giorni di esposizione a Washington, verrà spostata alla base militare di Andrews, in Maryland. E per rispetto, anche Wall Street resterà chiusa.

Poco male, di fronte alla morte occorre sobrietà. Quando è stata calendarizzata la nuova audizione? Non si sa, dal Joint Economic Committee del Congresso è giunta solo la conferma della cancellazione e questa frase sibillina: No new hearing date yet for Powell. Nessuna nuova data già fissata. Si vedrà più avanti. Insomma, quando la notizia della morte di Bush senior era appena stata diffusa, Trump ha immediatamente deciso che mercoledì sarebbe stato giorno di lutto nazionale, presumibilmente non avendo ancora avuto modo di sentire i familiari dell’ex Presidente, almeno per sapere se avessero già deciso in linea di massima qualcosa rispetto ai funerali. In compenso, il Congresso non riesce a calendarizzare una nuova audizione per Jerome Powell, pur sapendo da sabato che oggi sarebbe stato lutto nazionale.

Curioso, vero? E cosa significa questo? In soldoni, ovvero per ciò che conta davvero, che Cina e Usa, avendo dato vita con successo alla pantomima argentina e venduto al mondo la narrativa di un accordo che ha già innescato un rally di distensione, ora si chiamano fuori e, come una provinciale che sbarca a San Siro sperando nel colpaccio, gettano la palla nel campo europeo. Al netto della riunione dell’Opec di domani e dopo a Vienna, infatti, prima della prossima uscita della Fed – ovvero la riunione del Comitato monetario, prevista per il 18 e 19 dicembre – sono due gli appuntamenti game changer per i mercati. Il primo, l’11 dicembre a Westminster con il voto parlamentare sul Brexit e due giorni dopo a Francoforte, il board della Bce e le comunicazioni alla stampa di Mario Draghi.

E questo cosa potrebbe significare? Nella migliore delle ipotesi, essersi chiamati fuori dalla responsabilità di una rinnovata tensione sui mercati, tutta concentrata sui destini del Governo May e del Regno Unito in generale e sulle aspettative che tutti gli attori in campo, banche in testa, ripongono nella possibile prosecuzione in sedicesimi e sotto altra forma del Qe da parte dell’Eurotower. Nella peggiore ma non più peregrina (Draghi conferma la fine del Qe e non annuncia alternative, spedendo il nostro spread alle stelle e Westminster boccia il Brexit, portando la crisi di governo ed elezioni anticipate in Gran Bretagna), invece, sarà con ogni probabilità sell-off globale e generalizzata sui mercati e su tutte le asset-classes, azionario e obbligazionario. E la colpa di chi sarà? Dell’Europa, ovviamente, in modo tale che non solo la narrativa delle economie Usa e cinese in splendida forma potrà essere ancora spacciata come metadone fra le opinione pubbliche, ma che, soprattutto, Fed e Pboc potranno – quando sarà loro più strategicamente utile e stando alle modalità più congeniali – intervenire “per salvare il mondo” da quei disgraziati di europei che sanno fare soltanto danni.

E attenzione a sottovalutare quanto potrebbe accadere la prossima settimana a Londra, perché proprio ieri l’avvocato generale della Corte di Giustizia europea ha dichiarato che la Gran Bretagna ha il diritto di ritirare unilateralmente la sua notifica di Brexit dall’Unione europea, di fatto sancendo l’annullamento dell’Articolo 50 del Trattato di Lisbona.

Insomma, il rischio di botto epocale è tutt’altro che meramente teorico. Oltretutto proprio ora che, oltre alla tregua di 90 giorni per trattare, si era raggiunto anche l’accordo per l’addio alle tariffe sulle auto importate! E perché la questione automobili è così importante, paradossalmente prima a livello simbolico che pratico? Primo, l’annuncio dei 14mila licenziamenti da parte di General Motors ha rappresentato una mazzata micidiale e inaspettata per la propaganda della Casa Bianca, la quale sa sì che occorre far barcollare un po’ la percezione sullo stato di salute dell’economia per mirare al bersaglio grosso (mettere la mordacchia alla Fed, prima di scatenarla di nuovo), ma in questo caso ha visto infranto uno dei grandi frutti dell’immaginario collettivo dell’America great again, sancito dalla brutale immediatezza delle immagini dei dipendenti in lacrime fuori dai cancelli che hanno fatto il giro dei grandi network a stelle e strisce.

Secondo, signori siamo in pieno 2006! Stando a dati appena resi noti da Finsight, le finanziarie d’America sono in modalità “credito al consumo per tutti” e dall’inizio dell’anno sono stati emessi prestiti per l’acquisto di automobili a clientela subprime con rating B per 318 milioni di dollari, il massimo da quando è iniziata la mania della cartolarizzazione di massa: «Nemmeno unendo tutti gli anni precedenti insieme si arriva a questa cifra», si sentenzia nel report. Certo, 318 milioni di dollari possono sembrare poca cosa, se si pensa ai triliardi di esposizione su titoli, obbligazioni o derivati, ma un rating singola B in quel comparto significa una sola cosa: insolvenza quasi assicurata, visto che in media il tasso che si paga per quel prestito è attorno al 6%. Questo grafico mette perfettamente in prospettiva la situazione.

Ma non basta. Perché se per Amy Martin, analista presso Standard&Poor’s, «da un certo punto di vista sembra di essere di nuovo nel 2006, un anno prima che scoppiasse la grande recessione», la stessa agenzia di rating scodella numeri impietosi sul settore: da inizio anno, le finanziarie hanno emesso asset-backed securities legate al comparto automobilistico per un controvalore di 29,7 miliardi di dollari, battendo il record raggiunto nel 2017 con 24,5 miliardi. Terzo, stando a un report pubblicato lunedì da JP Morgan, la Ford starebbe per dare vita a un piano di ristrutturazione monstre da 11 miliardi di dollari, alla base del quale ci sarebbe il taglio di 25mila posti di lavoro, su un totale di 70mila, come mostra il grafico.

Dopo l’annuncio di General Motors, un’altra mazzata alla narrativa della Casa Bianca da parte di uno dei nomi storici dell’industria Usa: anzi, forse del più rappresentativo ed evocativo di tutti, basti pensare alla retorica del viaggio, alla Route 66 e a gran parte della produzioni iconica hollywoodiana. E attenzione, perché se Donald Trump patirebbe il danno reputazione, l’Europa pagherà quello a livello di posti di lavoro: il grosso dei tagli, infatti, riguarderà Ford Europe, sussidiaria della casa madre che ad oggi porta in dote un negative value di 7 miliardi di dollari. Ma questo deve restare, il più a lungo possibile, sotto il tappeto della propaganda. La notizia è la sospensione delle tariffe sull’import di automobili americane in Cina, una boccata d’aria fresca per lavoratori con le mani callose e il cuore che batte politicamente a destra.

La verità? Quella può attendere. Anzi, deve attendere. Davvero, George Orwell sarebbe stupefatto e ammirato di quanto accade quotidianamente sotto i nostro occhi, senza che riusciamo a coglierne la portata. E nemmeno l’esistenza, confusi come siamo fra reale e percepito. Distopia totale. Il paradiso delle élites.

P.S.: Le bugie hanno le gambe corte, ancorché vedrete che la grande stampa italiana non dedicherà troppo spazio alla questione. Questo è l’andamento del comparto auto sullo Standard&Poor’s 500 nell’intera giornata di lunedì e per metà di quella di ieri, quando ho scritto questa nota di aggiornamento all’articolo. Nonostante il tweet di Donald Trump sull’accordo per la riduzione e poi la rimozione delle tariffe cinesi sull’import di auto americane, in una seduta e mezza tutti i guadagni sono stati azzerati.

La ragione? Intervistato nella trasmissione di approfondimento politico del mattino (in America) di Fox News da Steve Doocy, il buon Larry Kudlow ha capitolato sulla questione. Dopo aver risposto che a suo modo di vedere questa mossa della autorità cinesi stia per arrivare, il consigliere economico del Presidente ha dovuto gettare la maschera, di fronte all’annotazione polemica del giornalista, il quale gli ha fatto notare come il capo della Casa Bianca l’avesse però spacciata come cosa fatta. «Non è stata ancora firmata, protocollata e consegnata», la risposta stizzita. In parole povere, non esiste. Questa gente guida la prima economia del mondo. Auguroni, altro che Toninelli.