I “mercati” non sembrano aver preso benissimo la notizia del fermo del direttore finanziario del gruppo cinese Huawei e ieri si è assistito a un diluvio di ribassi diffuso. La motivazione sarebbe la violazione delle sanzioni contro l’Iran, ma gli investitori hanno ovviamente inserito la vicenda nel contesto del peggioramento delle relazioni tra Cina e Stati Uniti reso evidente dall’introduzione dei dazi da parte di Trump. A un primo livello la questione è semplice; siccome non si è ancora capito fino a quando le “trattative” andranno avanti e fino a dove gli Stati Uniti si vogliono spingere, la reazione naturale è quella, come sempre, di vendere e poi farsi delle domande. L’incertezza su una questione così chiave per l’economia globale impedisce analisi e valutazioni; se si potesse arrivare con una ragionevole certezza “a un numero” o se si potesse intravedere un compromesso si potrebbe già capire cosa continuare a vendere e cosa ricominciare a comprare. Ma questo oggi non è possibile e quindi gli investitori fanno l’unica cosa “razionale”: escono da un mercato che non capiscono.
La questione però trascende di molto la “finanza”. Da un lato c’è una questione di riequilibrio dei rapporti commerciali, dall’altro si intravede un “disegno” più complesso. Huawei è il simbolo della sfida alla supremazia tecnologica americana della Cina; è leader nella tecnologia chiave del “5g” che ha venduto con successo in molti mercati del primo mondo. In questa partita le aziende americane sembrano rimaste indietro, ma non è l’unico settore di frontiera su cui la sfida non solo è apertissima ma in cui la Cina sembra già aver sorpassato l’America. L’avvertimento degli americani agli alleati di non usare tecnologia Huawei per evitare infiltrazioni e spionaggio si inserisce in un confronto Usa-Cina che si fa sempre più muscolare.
Su questo ultimo punto ci sembra si possano fare due osservazioni. La prima è che forse lo sviluppo tecnologico, economico e anche “geopolitico” cinese sia avvenuto con forza e velocità inaspettate e che si tenti in qualche modo di rallentarlo, o bloccarlo, per mantenere la leadership globale contro una potenza emergente che potrebbe avere i “numeri” per un sorpasso. La seconda è che in questo possibile confronto si arrivi a uno scenario da “guerra fredda”. Per cui, per esempio, la tecnologia americana o cinese diventano escludenti e lo stesso vale per gli investimenti, per gli scambi finanziari e commerciali.
Se questo è il caso si innescano cambiamenti che toccano in profondità la struttura degli scambi e della catena di produzione dell’economia globale. Ha ragione chi mette l’Europa con il suo modello basato sulle esportazioni tra le vittime più colpite. Queste dinamiche dovrebbero in realtà spingere “noi europei” a una visione originale e comune, ma i sospetti incrociati oggi sono ai massimi ed è difficile rimediare ad anni di sgambetti reciproci, oltretutto in un sistema “istituzionale e politico” che rimane pieno di difetti strutturali. Una cosa è certa: in queste fasi servirebbe molta più politica e visione che burocrazia e decimali. E, a scanso equivoci, non lo diciamo per giustificare qualsiasi schifezza possa finire nella prossima finanziaria. A questo proposito anche a noi toccherebbe il compito di avere una visione al di là delle promesse elettorali e degli interventi, magari inevitabili, che risolvono i problemi dei prossimi sei mesi.
Se la guerra commerciale è appena iniziata, se il gioco si “sta facendo duro” tra Stati Uniti e alleati e Cina, la previsione più facile è che difficilmente ci libereremo presto della “volatilità” dei mercati.