Dunque Telecom Italia – pardon: Tim – ha deciso di separare societariamente la propria rete di cavi dal resto del gruppo. È un’indiscrezione, per ora (riportata dall’agenzia Reuters e dettagliata dal Messaggero) che però non sorprende perché s’ingrana bene con mesi di voci al riguardo. E sembrerebbe collimare con altre indiscrezioni. Precisamente, quella che la fine delle ostilità tra il gruppo Vivendi di Vincent Bollorè – che oggi controlla il 22% di Telecom Italia e ha una quota di quasi il 30% in Mediaset, conquistata in modo ostile e al centro di un intrico di procedimenti giudiziari – e appunto la Fininvest di Silvio Berlusconi transiti per un accordo con cui i francesi non uscirebbero da Telecom ma rinuncerebbero a controllarne la Rete e, nel frattempo, ridurrebbero le loro mire su Mediaset, in cambio (ma che scambio si può mai fare con la magistratura di mezzo? Boh!) del fatto di essere lasciati in pace sulle ipotizzate malefatte borsistiche del passato.



Diciamo subito che la novità dello scorporo societario tale non è. Ci soccorre la memoria: una società controllata dall’incumbent telefonico nazionale (cioè dall’operatore dominante, ex monopolista), ma distinta da esso, finalizzata a controllare la sola rete e aperta al costante monitoraggio di neutralità da parte dell’Autorithy nazionale pubblica che deve garantire a tutti i cittadini come anche nel settore telefonico vi sia libera concorrenza, non è niente di nuovo. L’ha inventata la Gran Bretagna, è stata istituita nel 2006 – ci conforta banalmente Wikipedia – a seguito di un accordo tra British Telecom e l’ autorità britannica di regolamentazione delle telecomunicazioni Ofcom e ha avuto come scopo quello di attuare determinati impegni, ai sensi dell’Enterprise Act 2002, per garantire che gli operatori di telecomunicazioni concorrenti abbiano pari accesso alla rete locale di BT. 



È servita allo scopo? Sì, ma è una domanda stupida: è come chiedersi se a Londra servono le file dei passeggeri in attesa di salire sull’autobus. Servono, ma perché lì siamo a Londra e hanno una loro forma di civismo diversa dalla nostra, basti pensare – sia perdonata l’ironia – che i poliziotti girano senza pistola, si tiene la sinistra guidando e non si conosce l’uso del bidet. Quindi, ogni confronto è veramente stupido. In Italia, una separazione societaria sotto la stessa proprietà è una foglia di fico per, gattopardescamente, “cambiare tutto perché tutto resti tale e quale”.



La partita in gioco sulla rete di Telecom Italia è ben altra, e più seria, quasi drammatica. Si separa la rete per venderla. La crescita della rete di Open Fiber – la joint venture tra Enel e Cassa depositi e prestiti che sta cablando l’Italia in banda ultralarga, completamente in fibra ottica – sta di mese in mese non vanificando ma certo ridimensionando la strategicità, unicità, insostituibilità che aveva fino a qualche anno fa la rete di Telecom Italia. Lo sanno tutti, non ne parla nessuno.

Per le passate gestioni di Telecom Italia – da quella di Colaninno a quella di Tronchetti fino a quella di Telefonica con Bernabè – l’indissolubilità del legame dell’azienda con la sua rete era un mantra, un assoluto tabù: come se privandosi della rete l’azienda rischiasse di votarsi a morte certa. In conseguenza di quest’assunto, si è respinta qualsiasi ipotesi di “valorizzazione” dell’asset – una sua vendita, una sua nazionalizzazione, una semplice quotazione in Borsa – che pure sarebbe stata se non un toccasana, certo una boccata d’ossigeno per le indebitate casse del gruppo.

Adesso i francesi – che al business telefonico si appassionano fino a un certo punto, avendo una mentalità da produttori televisivi – stanno rimeditando tutto. A loro la rete serve soprattutto per farci correre dentro i contenuti televisivi. E sanno che questo risultato si ottiene in ogni caso, quando si hanno dei buoni contenuti: il successo di Netflix, che fa soldi con i contenuti senza possedere neanche un metro di rete, è lì a dimostrarlo. E quindi, forse forse, il tabù dell’indissolubile vincolo Telecom-Rete sono disposti a infrangerlo. Dipende dal prezzo.

Ma qui, direbbe Totò, casca l’asino. La troppa attesa nuoce ai buoni affari. La crescita galoppante della rete di Open Fiber sta ponendo un’ipoteca sul valore storicamente condiviso della rete Telecom – che oscilla da sempre tra una valutazione di 10 e una di 15 miliardi di euro – perché ne sta ridimensionando “l’unicità”. E dunque? Dunque il vero, unico e solo compratore possibile della rete Telecom resta Open Fiber, o uno dei suoi azionisti, la Cassa depositi e prestiti o l’Enel, soprattutto la prima, che giustamente controlla le altre reti strategiche del Paese, quella elettrica e quella del gas. Ma le decisioni della Cassa sono pilotate, giustamente, dalla politica, visto che è un’azienda pubblica. E la politica è in apnea fino al 4 marzo. Se ne riparla.