Non poteva durare. E alla fine non è durata. La luna di miele delle Borse con Donald Trump si è interrotta bruscamente in coincidenza con l’arrivo del nuovo presidente della Fed, Jerome Powell, che pure passa per essere un repubblicano “morbido”. Ma era facile prevedere che l’uscita di Janet Yellen avrebbe comunque significato l’avvio di un nuovo round di politica monetaria, all’insegna del rialzo dei tassi. Un rialzo “moderato e graduale”, secondo i messaggi in arrivo da Washington, ma comunque traumatico per i mercati che si erano ormai assuefatti a una situazione “perfetta”: grande spinta fiscale e stimoli monetari, assenza di inflazione, un quadro politico definito e perfino una buona visibilità sugli utili (in forte espansione). Insomma, una sorta di Eden per i listini, che avevano relegato in cantina il rischio di un’impennata dei salari e la successiva rivincita della curva di Philips, grazie al trionfo dell’economia digitale e alla concorrenza tra i vari centri dell’economia globale.



Quasi all’improvviso, però, le buste paga sono tornate a salire in Usa e non solo a vedere l’accordo siglato dai meccanici tedeschi. Batte alle porte l’inflazione da salari che i mercati, in maniera un po’ confusa, stanno cercando di prezzare. Cosa mica facile perché in questi anni si sono venuti a creare fenomeni nuovi e nodi come sempre destinati a venire al pettine quando il vento muta. La volatilità, ad esempio. In questi anni si sono accumulate posizioni miliardarie sui fondi che scommettono sui saliscendi dei mercati. Ma i guadagni quasi scontati in una situazione di bonaccia, con variazioni minime degli indici, si sono trasformati in perdite rovinose di fronte agli scossoni dell’ultima settimana, un po’ come era successo ai Cds nel momento della crisi di Lehman Brothers. La situazione, per fortuna, è oggi assai meno tesa. E sono senz’altro più numerosi gli operatori in attesa di sfruttare il calo dei prezzi per fare shopping sui mercati che gli speculatori al ribasso. Ma è comunque probabile che nei prossimi mesi le banche centrali continueranno a chiudere, seppur con cautela, il rubinetto della liquidità e ad alzare i tassi.



Gli operatori sui bond si sono già adeguati: mercoledì il Tesoro Usa ha dovuto aumentare sensibilmente i rendimenti dei titoli a 30 anni per trovare compratori. Per l’azionario il prolungamento della crescita economica garantirà utili più alti per un periodo più lungo, ma anche una contrazione del multiplo per il quale gli utili vengono moltiplicati per formare il prezzo. Il multiplo è infatti funzione del tasso a lungo che, come abbiamo visto, tenderà a salire. Per i bond il consiglio è di restare sulle scadenze brevi e sui titoli indicizzati all’inflazione. Per l’azionario si tratterà invece di sopportare una volatilità elevata a fronte di un calo delle quotazioni, anche di una certa entità.



Ma quali possono essere le conseguenze più generali, importanti anche per chi non possiede azioni? Dal punto di vista politico, il calo di Wall Street è una brutta notizia per Donald Trump che si era attribuito i meriti del rialzo. Ma l’aumento dei tassi è una notizia ancora peggiore per un Paese indebitato qual è l’Italia. Un’eventuale guerra commerciale tra Europa e Usa ci colpirebbe probabilmente più di altri Paesi, compresa la Germania, il vero bersaglio delle ire di Trump. Intanto Berlino, una volta varato il nuovo governo, si appresta a effettuare una virata storica: passare da un modello di sviluppo basato sull’export a un paradigma fondato sulle infrastrutture e la crescita dei consumi interni, affidato alla regia del nuovo ministro delle Finanze, il socialdemocratico Olav Scholz, già ministro del Lavoro al tempo delle riforme di inizio millennio che hanno garantito il rilancio dell’industria d’oltre Reno. Può essere un’ottima notizia per l’Italia nel caso si sia in grado di accelerare sulla strada della ripresa, come ha fatto ad esempio il Portogallo, con un forte recupero della stabilità finanziaria senza i sacrifici dell’austerità.

Non è impossibile, anzi. Come ha spiegato Carlo Cottarelli, ex direttore esecutivo per l’Italia al Fmi ed ex commissario alla spending review, se si riuscisse a congelare la spesa primaria in termini reali per tre anni (limitando cioè l’aumento delle spese sotto il tasso di inflazione entro il 2020) l’Italia “pareggerebbe i conti pubblici”. Uno sforzo sopportabile, ora che la crescita si avvicina a un punto e mezzo percentuale. Ma anche necessario, perché se il mondo entrerà recessione senza che si sia avviato nel frattempo il processo di riduzione del nostro debito ci troveremmo di nuovo di fronte a una salita impervia: debito pubblico alto e in salita ed economia che non cresce, azzoppata dagli oneri finanziari.

La crisi delle Borse ci ammonisce che il bel tempo non dura all’infinito. Guai a perder l’occasione. Proprio quello che ci accingiamo a fare dal 4 marzo in poi.