Poco meno di cinque anni fa, nel pieno della crisi che attanagliava il Giappone da due decenni, il premier Shinzo Abe nominava alla guida della Banca centrale Haruhiko Kuroda, un funzionario di vecchia data del ministero delle Finanze, già a capo della Asian Development Bank, autore di un saggio in cui sosteneva la necessità e l’urgenza di una politica monetaria molto espansiva per venire a capo della recessione. Non fu una nomina indolore. La maggior parte dei membri del board della Boj era convinta che per far ripartire l’economia fosse necessario intervenire sul debito pubblico senza controllo, metter ordine nei conti bancari disastrati dalla crisi immobiliare e introdurre così più produttività in un sistema drogato dell’emergenza. Ma Abe, ansioso di lanciare le “tre frecce” sulla sua politica, puntò i piedi nonostante l’opposizione dei banchieri, ansiosi di proteggere l’indipendenza dell’istituto. Alla fine ha vinto lui, ormai il primo ministro più longevo del Sol Levante, trionfatore alle recenti elezioni di un Giappone che annusa, finalmente, l’aria di una ripresa che non si è ancora consolidata, ma che comunque c’è.



È in questa cornice che si può apprezzare la decisione di rinnovare il mandato a Kuroda, avviato a divenire il banchiere centrale con la maggiore anzianità in servizio quando, entro pochi mesi, andrà in pensione Zhou Xiaochuan, il numero uno della People Bank of China. Una scelta tanto più forte in quanto accompagnata dalla nomina di un vice, il professore universitario Masazumi Wakatabe, considerato un sostenitore molto aggressivo dell’allentamento quantitativo.



Tokyo, insomma, non abbandona la politica seguita in questi anni, senza tener in alcun conto i segnali di ripresa, ancora da consolidare. Ma gli altri? Negli Usa i mercati attendono il debutto di Jerome Powell alla testa della Federal Reserve il prossimo 21 marzo, data del primo board della nuova gestione che, quasi di sicuro, segnerà un aumento di un quarto di punto dei tassi. A settembre Mario Draghi, all’ultimo anno del suo mandato, potrebbe annunciare tempi e modi della fine del Qe europeo, come da tempo chiedono i partner dell’area nord dell’Eurozona. Potrebbe essere il momento della svolta, anzi dell’avvio di una stretta.



 I mercati, tutto sommato, però non ci credono: la sensazione, avvalorata dalla ripresa di Wall Street e dai segnali espansivi della politica economica degli Stati Uniti, è che le scelte vadano in direzione opposta. La riforma fiscale americana ha prenotato 150 miliardi annui di spesa in più per i prossimi dieci anni. I democratici, dopo aver aspramente criticato le scelte di Trump, hanno votato assieme ai repubblicani un progetto di bilancio che prevede un ulteriore buco di 400 miliardi di dollari. I mercati del debito abbozzano una protesta, Wall Street vacilla per due giorni, poi riprende come nulla fosse. 

Nell’eurozona, dopo che Wolfgang Schaeuble ha lasciato la guida delle Finanze tedesche, la parola austerità è verboten nel linguaggio in voga a Bruxelles. Il verbo alla moda è quello di Emmanuel Macron, la linea preferita dai mercati è quella perseguita con successo dalla Spagna: spazio agli animal spirits dell’economia (anche con una robusta deregulation dei rapporti di lavoro), ma rispetto delle politiche espansive, purché sappiano combinarsi con la crescita. 

E le banche centrali? Passato il momento peggiore, i banchieri centrali hanno paura di rivivere un’esperienza di recessione e sono comunque tenuti a freno dai politici della nuova generazione, quelli eletti negli ultimi anni con il mandato di crescere a tutti i costi. 

È in questa cornice che l’Italia si accinge a vivere l’ultimo scorcio di una campagna elettorale dai toni esagerati, ma che ha lasciato del tutto freddi i mercati finanziari. La linea, più espansiva che rigorista, è già segnata. La speranza è che l’Italia riesca a seguirla con gli stessi risultati della Spagna, cosa possibile se sapremo attrarre gli investimenti, consolidare l’export (siamo terzi in Europa dietro a Germania e Olanda) e sostenere così la domanda interna. Si può, purché non ci facciamo male da soli.