Due giorni fa Bloomberg ha pubblicato l’indice di miseria che classifica 66 Paesi “sommando” il tasso di inflazione e l’indice di disoccupazione. In questa singolare classifica si è confermato saldamente al primo posto il Venezuela seguito dal Sud Africa e dall’Argentina. Tra i primi dieci, in compagnia di Paesi come Ucraina o Turchia e Brasile, un tempo economie in via di sviluppo, fanno il capolino la Grecia al quinto posto sotto l’Egitto e a pari merito con la Turchia che “guadagna” una posizione, e la Spagna, confermata all’ottavo posto appena sotto l’Ucraina. È davvero singolare trovare due Paesi “del primo mondo” e dell’Europa ai primi posti di una classifica di Paesi che siamo abituati ad associare a povertà e miseria.
Sicuramente si rimane perplessi di fronte a una pubblicazione, che con i suoi limiti, cozza con l’immagine di un Paese il cui debito “non è più un problema”, la Grecia, e uno che “è in ripresa”, la Spagna. In realtà l’indice di Bloomberg fotografa una situazione difficile con la Grecia al 21% di disoccupazione e la Spagna al 17%. La disoccupazione giovanile che in Grecia negli ultimi mesi è risalita dipinge una situazione ancora più drammatica con la Grecia al 41% e la Spagna al 37%. Chi non è europeo e legge questi dati non può non farsi alcune domande: cosa sta succedendo in Europa? Perché parte dell’Europa sta diventando un’economia in via di sviluppo? Questo andamento è destinato a continuare o si invertirà? La realtà è molto diversa dall’immagine consolidata di un continente ricco e florido; oppure la realtà è più complessa dell’immagine semplificata che passa sulla maggioranza di giornali e tv.
Allo stesso modo è consolidata la convinzione che fuori dall’euro e dall’Europa sarebbe comunque peggio: inflazione, debito, svalutazione renderebbero l’economia molto peggiore di quella attuale. Si dovrebbe però cominciare a prendere in considerazione l’ipotesi, se il trend non si inverte, che l’economia da Paese del terzo mondo si raggiunge comunque, all’interno dell’euro, anche se più lentamente. A questo punto, sempre per onestà intellettuale, bisognerebbe chiedersi perché nell’euro, toccato il fondo, ci dovrebbero essere più possibilità di risalita che fuori. Qualsiasi cosa si pensi dell’euro e dell’Europa non si può non fare i conti con “gli indici Bloomberg” e i loro parenti stretti secondo cui la periferia europea si sta impoverendo a un tale livello da avere punti di contatto che le economie in via di sviluppo; con la differenza che spesso queste economie “salgono” mentre la periferia europea scende.
Rimane sospesa questa domanda: le tensioni e le conflittualità, “i populismi”, all’interno dei singoli Paesi europei e tra Paesi europei che relazione hanno con l’attuale struttura economico-politica europea? Se l’euro e l’Unione europea sono un bene perché la realtà sbaglia? L’assunto secondo cui l’euro e l’Unione europea agiscono in senso centripeto e diminuiscono le conflittualità fino a che punto può essere difeso? Infine l’Europa coincide con l’euro e l’Unione europea? Si può essere amici senza l’euro? Sono domande con cui l’indice di Bloomberg ci obbliga a fare i conti; soprattutto perché, esclusi i paradisi fiscali, in fondo all’indice, dove si sta meglio, ci sono Danimarca e Norvegia, due paesi europei senza l’euro. Con una sola aggiunta: un’inversione a questo punto deve arrivare in fretta, prima che le differenze diventino così grandi da provocare conseguenze politico-economiche traumatiche.