Lui, sempre lui, fortissimamente lui! Sì lui, quello che, con la spesa, remunera tutti i soggetti economici intervenuti nel ciclo produttivo. Non pago, paga pure con l’Iva; quella somma del valore delle trasformazioni di processo che si sono depositate nel passaggio dalla materia al materiale, fino a quando si fa merce pronta all’uso. Già, paga e, con quel pagare, salda il bisogno che ha invogliato l’acquisto. La spesa insomma ratifica il valore contenuto nel prodotto e, per cotanto fatto, paga tassa.
Sì, funziona pressappoco così: dall’albero al quotidiano. Dalla cellulosa che si fa carta, alla notizia che si mostra, al giornalista che la raccoglie, alla redazione che la sceglie, al direttore che la vidima, alla rotativa che la stampa, all’edicola che la espone, al curioso che vuol leggerla. Sì, quel curioso ratifica, mette il bollo, valida questo valore. E lo Stato incassa. Chi acquista paga, chi vende se la scala a meno che? A meno che quel quotidiano esercizio del curioso non venga disperso in un universo comunicativo, sovraffollato dalla merce informativa. A meno che questo sovraffollamento non abbia saturato il bisogno di informarsi. A meno che manchi il denaro sufficiente che possa acquistare pure il surplus.
Ecco, nell’azione combinata di questi “a meno che” viene misconosciuto quel valore e oplà, svalutato. Dunque, non vi sarà remunero di alcunché, né di alcunchì. Sì, per dirla con Montanelli, se il giornale del giorno dopo incarta il pesce, quand’anche invenduto, non ha informato nè fatto guadagnare alcuno: bella no? Così l’Erario incasserà meno, ancor meno il penultimo del ciclo, a cui è rimasto il cerino in mano. Già, quello dell’edicola messo sulla graticola dal bisogno, questo sì insoddisfatto, di dover vendere giornali per poter guadagnare e non dover pure pagare l’Iva sull’invenduto.
Ci risiamo insomma. Colpa, ancora una volta, di quei maledettissimi denari insufficienti per poter fare la spesa, quindi la crescita, per far guadagnare tutti pure quelli che, da buon ultimi, rifocillano l’erario.