Raramente gli editorialisti che analizzano le prospettive di crescita dell’Italia si chiedono dove sta andando il commercio mondiale. Eppure, tutti i principali modelli econometrici del nostro Paese considerano come variabile indipendente le esportazioni mondiali. Naturale per un Paese trasformatore la cui crescita interna dipende in buona misura dalle esportazioni. L’ultimo rapporto Ice-Prometeia Evoluzione del commercio con l’estero per aree e settori indica che nel 2017 la crescita dell’export ha toccato il 7% rispetto al 2016 e le esportazioni totali hanno sfiorato i 500 miliardi di euro, quasi la metà di quella della Repubblica Federale Tedesca. È grazie a questo andamento dell’export che stiamo uscendo dalla recessione, nonostante il contesto interno ponga numerosi freni. È fin troppo intuitivo che se le esportazioni e le importazioni mondiali flettono, per quelle dell’Italia sarà arduo crescere a tassi come quelli segnati in passato.
Si deve quindi guardare con attenzione all’andamento del commercio mondiale. L’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) ha fornito stime preliminari secondo cui nel 2017 il commercio mondiale ha segnato una crescita appena del 2,7%; i dati definitivi saranno disponibili in primavera avanzata. Per il 2018, la stessa Omc ha elaborato previsioni preliminari che variano da un tasso di aumento tra il 2,1% e il 4%, tassi inferiori a quelli che hanno caratterizzato il commercio mondiale nella seconda metà del ventesimo secolo. Il più recente documento Omc attribuisce l’ampia variazione delle stime “a direzioni imprevedibili dell’economia mondiale e poca chiarezza in materia di politica fisco-monetaria e commerciale”. “Se la politica tenta di curare la perdita di posti di lavoro all’interno dei singoli Paesi con restrizioni alle importazioni – afferma il documento – il commercio non può spingere la crescita, ma rischia di frenarla”.
La preoccupazione principale è la minaccia, annunciata in campagna elettorale da Donald Trump, di una politica protezionistica da parte degli Stati Uniti. All’inizio di gennaio, gli Usa hanno imposto “dazi compensativi” nei confronti di elettrodomestici e pannelli solari esportati principalmente dall’Asia. In questi ultimi giorni, poi, la Casa Bianca sta valutando se imporre dazi e restrizioni quantitative su prodotti siderurgici e alluminio, in provenienza soprattutto dall’Asia e dall’America Latina. Tuttavia, l’atteggiamento della Casa Bianca pare essersi ammorbidito: è stato annunciato che le misure commerciali saranno d’ora in poi “negoziate” e quindi non unilaterali. Cos’ha indotto al cambiamento almeno di tono? Da un lato, è stato fatto notare all’Esecutivo da numerosi parlamentari repubblicani – un partito tradizionalmente più aperto alla liberalizzazione degli scambi di quanto non sia quello democratico – che le parole forti in tema di commercio, dazi e tariffe possono essere utili a trovare voti in Stati dell’Unione dove ci sono industrie poco competitive e alta disoccupazione, ma che da una guerra commerciale gli Usa rischiano di uscire perdenti. Non solo a ragione delle misure di ritorsione che applicherebbero altri Stati e che, nelle circostanze, verrebbero probabilmente approvate dall’Omc nella sua funzione giurisdizionale, ma perché gli Usa rischiano l’isolamento in un mondo in cui la libertà degli scambi è vincente. Sono in corso 35 trattative o bilaterali o regionali per ridurre quel che resta dai dazi, liberalizzare le barriere non tariffarie agli scambi, eliminare gli ultimi contingenti quantitativi. “Il mondo si muove anche senza di noi”, ha scritto un gruppo di parlamentari repubblicani in una lettera a Donald Trump.
C’è, poi, un aspetto più sottile su cui pochi hanno riflettuto. Come ben illustrato da Bernard Hoekman Doug Nelson nel CEPR Discussion Paper No. DP 12620, gli accordi commerciali del ventunesimo secolo sono molto differenti da quelli del Novecento, quando il commercio internazionale è stato “il conducente” della crescita mondiale e dell’aumento dei Pil pro capite grazie alle riduzione dei dazi e all’apertura dei contingenti. A ragione dello sviluppo di complesse strutture di produzione spesso distribuite tra diversi Paesi, le trattative (e le intese) commerciali oggi comportano cooperazione in un vasto ambito di politiche di regolazione, principalmente in materia di ambiente e di lavoro. Si tratta, quindi, di trattative molto più difficili di quelle del passato.
Jean Frederic Morin, Andreas Dur e Lisa Lechner delle Università di Laval in Canada e di Salisburgo in Austria hanno pubblicato poche settimane fa uno studio in cui esaminano gli aspetti ambientali di 630 accordi commerciarli stipulati tra il 1947 e il 2016. Concludono che le democrazie, i Paesi che devono affrontare forte competizione dalle importazioni e i Paesi con una consapevolezza ambientale hanno una tendenza a includere clausole ambientali negli accordi commerciali. In un contesto in cui gli accordi commerciali cambiano veste e funzione, l’Italia deve giocare le proprie carte con maestria.