La chiusura dello stabilimento Embraco, gruppo Whirlpool, a Riva di Chieri con 500 licenziamenti ha fatto scendere in campo la politica nella persona del ministro dello Sviluppo economico Calenda. Il quale di fronte alla chiusura di una fabbrica italiana e allo spostamento della produzione all’estero ha parlato di “competizione non leale” da parte della Slovacchia e ha detto: “Io non potrei fare una norma che dice che per Embraco il costo del lavoro è un po’ più basso, perché sarebbe un aiuto di Stato. Ma penso si possano interpretare i trattati nel senso di dire che in questo specifico caso, cioè di un’azienda che si muove verso la Slovacchia, verso la Polonia, questa normativa può essere derogata. Vedremo quale sarà la risposta della Vestager”. Non siamo particolarmente ottimisti sulla risposta perché la vicenda non è un incidente di percorso dell’Unione Europea.



Perché Calenda “tira in ballo” l’Unione Europea? Noi italiani da anni siamo convinti che sia il mercato che debba decidere, che le imprese fanno quello che vogliono per massimizzare il loro profitto e che questi principi vengono applicati ovunque. Questa idea cala paurosamente di popolarità appena fuori dai nostri confini. In realtà uno Stato qualsiasi, un sistema Paese, ha molti mezzi per difendersi da delocalizzazioni che si traducono in centinaia o migliaia di posti di lavoro in meno. Se un Paese assiste a un’emorragia di posti di lavoro verso Paesi che hanno costi del lavoro molto più bassi e con cui non si potrà mai competere, l’arma usata è quella di impedire alle imprese di certi stati di esportare dentro i propri confini.



È quello che è successo nella patria del libero mercato, gli Stati Uniti nel 2014, sotto Obama, con i dazi imposti a Cina, Sud Corea e compagnia sulle importazioni di tubi in acciaio; ed è quello che succederà nei prossimi mesi. I casi non si contano perché ogni Paese tenta di difendere il proprio mercato interno in alcuni settori. Se non fosse così negli Stati Uniti, o in Germania, non ci sarebbe più una sola fabbrica. I dazi sono solo uno strumento a cui si aggiungono le pressioni del sistema Paese contro l’acquisizione di imprese estere perché è molto difficile controllare le decisioni di un’impresa che ha la sede a Pechino e non a Milano. Poi c’è il capitalismo di Stato in tutte le sue forme.



Lo Stato italiano questo potere non ce l’ha più perché c’è il mercato unico europeo. Per questo un’impresa americana chiude un’impresa in Piemonte e la apre in Slovacchia dove lo stipendio medio è la metà, magari ci sono meno controlli e meno tasse. Siccome la Slovacchia è nel mercato unico i prodotti poi finiscono in Italia realizzati dagli slovacchi e non dagli italiani e nessuno può dire niente. Gli aiuti di Stato, su cui ci assicura Calenda l’Europa sarà inflessibile, non c’entrano niente e Whirlpool sta facendo quello che deve fare. Ma questo è l’aspetto meno importante.

L’Unione Europea e l’euro stanno in piedi esattamente perché l’Unione lavora in senso deflattivo sul costo del lavoro interno, spostando una fabbrica dall’Italia alla Slovacchia; questo accade di meno in Francia o Germania che controllando l’Unione possono mettere in atto quelle pressioni, utilizzando lo strumento delle istituzioni europee, che l’Italia non può mettere in atto. Accade di meno, ma i populismi esplodono anche lì perché anche gli operai tedeschi non possono guadagnare molto di più. La questione è sostanziale. L’Unione Europea sta in piedi con il surplus commerciale fuori controllo della Germania perché c’è la deflazione interna e l’austerity.

Senza austerity e deflazione interna l’euro si rivaluterebbe e la Germania sarebbe obbligata a investire per sostituire la domanda estera con quella interna. In questo modo redistribuirebbe i benefici di quel surplus commerciale in tutta l’Unione perché tutti, più o meno, beneficerebbero di più investimenti in opere pubbliche e di una inflazione buona fatta dagli aumenti degli stipendi. Ma a quel punto il giochino tedesco si romperebbe e la Germania smetterebbe di avere la botte piena e la moglie ubriaca: surplus commerciale, surplus fiscale per i tassi bassi, nessun contributo all’Ue (si pensi alla Grecia) ed euro svalutato. L’attuale struttura europea permette a chi è in cima di avere tutto senza dare niente e in più, politicamente, consente un trasferimento di sovranità con colonizzazione della periferia senza neanche spendere per una guerra.

L’Europa dirà, inevitabilmente e giustamente, che non c’è nessun aiuto di stato in Slovacchia e le cose rimarranno come sono. Il problema è strutturale ed è relativo alla struttura profonda dell’Unione Europea che è il cuore del suo modello economico. Il problema è sempre lo stesso: non può sopravvivere un’Unione in cui il Paese guida, il motore economico, ha un surplus commerciale esagerato, non investe emettendo debito a tassi negativi e può continuare a tirare avanti così solo scaricando gli squilibri sul resto dell’Unione, le colonie, imponendo deflazione, tramite austerity e disoccupazione.

Più gli altri Paesi si arrabbiano, come gli Stati Uniti, più la Germania diventerà “cattiva” e cercherà di aumentare la presa sul resto dell’Unione, ottenendo sovranità, per controbilanciare l’esplosione delle differenze tra centro e periferia. L’alternativa alla colonizzazione, in questo schema, è la rottura dell’Unione decisa quando conviene alla Germania quando le differenze diventeranno insostenibili. Calenda, forse senza rendersene conto, non ha evidenziato un incidente di percorso dell’Unione, ma le disfunzioni di un’Unione che produce disoccupati, tagli al welfare e minori redditi per permettere a chi comanda di continuare a beneficiare dell’Unione senza spendere un euro.

In questo senso l’esplosione dei “populismi” e le conseguenze politiche della disoccupazione crescente sono, purtroppo, un prodotto dell’Unione a cui si può porre rimedio solo cambiandola radicalmente, restituendo sovranità a tutti gli europei e investendo. Purtroppo però niente di tutto questo andrà bene a chi oggi incassa i dividendi degli squilibri a cui assistiamo.

Se l’Italia vuole provare a salvare se stessa e l’Unione deve abbandonare l’ideologia secondo cui qualsiasi cosa va bene purché abbia il volto dell’Europa; dietro quel volto non c’è l’Europa ma la Germania e, qualche volta, la Francia.