Questa è una lettera aperta, perché non ho nulla da nascondere e, soprattutto, non ho paura di esprimere le mie opinioni senza tanti giri di parole. È una lettera aperta a Maurizio Molinari, direttore de La Stampa ed esponente di punta di quella che possiamo chiamare la “comunità neo-con” italiana, ovvero giornalisti che hanno mandato bellamente in cantina il principio di equidistanza e indipendenza e sposato la causa a stelle e strisce. Comunque. E sempre. Capostipite della tribù, molto ben inserita nei gangli del potere che conta, ancorché con ruolo ancillare, è stato Giuliano Ferrara con il suo amore sviscerato e un po’ fanciullesco verso il Bush post-11 settembre e la pletora mista di criminali di guerra e incapaci sesquipedali di cui si era contornato alla Casa Bianca: boots on the ground era la parola d’ordine, il motto della banda, quasi un slogan taumaturgico, un qualcosa che eccitava da morire animi ormai spenti di una vecchiaia assai mal giunta e in via di ancora peggior vissuto. Non l’ho mai stimato, fin dai tempi in cui era corrispondente prima a Washington e poi in Israele e non lo stimo adesso, per nulla: non sarà diplomatico dirlo, ma almeno non è ipocrita, permettetemi. 



Da sempre, La Stampa è in prima fila non solo nella battaglia editoriale contro le cosiddette fake news, ovvero le balle che organi di stampa presunti autorevoli spacciano come verità ufficiali, accusando chi la verità prova a dirla davvero da fuori linea di essere un propagatore doloso di bufale, ma anche in favore di quell’immane idiozia ideologica e strumentale conosciuta come Russiagate, ovvero le presunte interferenze russe nelle elezioni presidenziali Usa del 2016 e, di fatto, in qualunque altro avvenimento con un minimo di eco mondiale, dal referendum sul Brexit a quello catalano sull’indipendenza. A inizio settimana, abbiamo scoperto che non solo il giornale sabaudo e di casa Fiat – non a caso noto come la busiarda – ha addirittura inviato un giornalista negli Usa per smascherare gli hacker russi che inquinano i social italiani, ma che, udite udite, tre account di Twitter sono stati chiusi grazie alla denuncia, gente pericolosissima che difendeva Salvini, attaccava la Boldrini e supportava il Movimento 5 Stelle: eversione pura, roba da scomodare i servizi segreti. Gente poi con un seguito enorme, visto che uno dei profili che ha chiuso in fretta e furia i battenti aveva circa 500 followers e l’altro non arrivava nemmeno a quel numero: accidenti, roba da far invidia allo share del Festival di Sanremo! 



E fin qui, passiamoci sopra, è più forte di loro tramutare peti in tsunami, pur di poter incolpare i russi come durante il maccartismo più cupo e ottuso. Il problema è che, forti dell’allarme lanciato l’altro giorno dai servizi segreti – ancorché generico, come è ovvio che fosse – riguardo cyber-attacchi a ridosso del voto del 4 marzo, temo che a Torino andranno avanti e continueranno a raccontare ai loro lettori e al mondo la favoletta del Cremlino che mesta nel torbido tanto cara a quel Deep State che, di fatto, è al potere a Washington, avendo messo un minus habens a Pennsylvania Avenue proprio per poter perseguire la propria agenda avendo un comodo capro espiatorio nel ruolo di commander-in-chief, un bel Monsieur Malaussene a stelle e strisce buono per ogni evenienza. E, soprattutto, guaio a cui attribuire una paternità verso l’opinione pubblica (e, c’è da dire, Trump fa di tutto per assolvere al meglio a questo compito). 



Io sono certo che quanto raccontato da La Stampa sia una bufala, quantomeno nei contorni, nell’importanza e nell’impatto reale, ma la cosa che più mi dà fastidio è che un quotidiano da tutti ritenuto autorevole si permetta di raccontare, nei riguardi di un argomento specifico, solo ciò che gli fa comodo e sposa la sua narrativa, evitando bellamente di dare conto del resto. Ad esempio di questo,

https://twitter.com/robjective/status/964680123885613056?ref_src=twsrc%5Etfw” rel=”nofollow

ovvero il fatto che in perfetta contemporanea con l’inchiesta-bufala del quotidiano torinese e con l’accusa del procuratore Robert Mueller contro 13 cittadini russi per il Russiagate, Rob Goldman, il vice-presidente di Facebook, altro social finito nel turbine delle manipolazioni e interferenze russe sul voto Usa, abbia detto chiaro e tondo che la maggioranza delle pubblicità acquistate da soggetti russi siano comparse dopo il voto del novembre 2016 per le presidenziali e che lo scopo non fosse influenzare il voto, ma intervenire sul post-elezioni (tutto da provare, fra l’altro). Scusate, vi pare normale che un tentativo di destabilizzazione di un appuntamento elettorale prenda corpo dopo che lo stesso è già avvenuto? Sono russi o anche idioti? E poi, scusate, perché non far notare, cifre alla mano, che comunque sia – fosse anche vera la vulgata degli interventi di elementi legati al Cremlino sui social – Hillary Clinton è riuscita a perdere nonostante la sua spesa al riguardo sopravanzasse quella “russa” con una ratio di 53 a 1? 

Già, i temibili hacker di Putin avrebbero speso su Facebook un budget mensile di 1,2 milioni di dollari – che braccini – per interferire nel voto Usa e far vincere Donald Trump, mentre la Clinton e il Pac Priorities del Partito Democratico qualcosa come 800 milioni di dollari in tutto il 2016, fate voi il calcolo mensile a spanne. Cosa dite, alla luce di questi dati – incontrovertibili – vi pare credibile la narrativa ufficiale, quella che La Stampa spara quasi quotidianamente con toni da allarme rosso? 

Perché se fosse vero un quinto di ciò che dicono, saremmo davvero davanti a un grosso problema: ovvero, la cosiddetta prima democrazia e potenza mondiale si è fatta pilotare e sabotare nientemeno che un’elezione presidenziale con 1,2 milioni di dollari di investimenti pubblicitari su Facebook, la gran parte dei quali post elezioni e qualche tweet di Napalm51 e suoi discepoli. Ma c’è dell’altro. Stando all’atto d’accusa ufficiale emanato da Robert Mueller venerdì scorso contro i 13 cittadini russi, questi troll non avrebbero supportato soltanto Trump, ma anche Jill Stein e Bernie Sanders, oltre gruppi di estrema sinistra come Blacktivist and Woke Blacks. 

Di più, è parere condiviso – anche dallo stesso Trump – che dopo il voto questi hacker abbiano continuato la loro iniziativa per seminare zizzania sociale negli Usa – vedi le molte manifestazioni contrapposte fra supporter e contestatori del Presidente o le dispute sull’eliminazione delle statue del periodo confederato -, tanto da prestare il fianco ai gruppi facenti capo all’organizzazione-ombrello Resist, quella che organizzava manifestazioni anti-Trump in tutto il Paese. Strano modo di supportare l’inquilino della Casa Bianca che si sarebbe fatto vincere grazie alle ingerenze social, non trovate? Hanno forse cambiato idea dopo il voto, al Cremlino? 

Ma non basta ancora. Guardate qui,

https://twitter.com/aaronjmate/status/965960691697049601

è il tweet con cui Adrian Chen, giornalista del New Yorker e uno dei primi in assoluto a profilare i cosiddetti troll russi in tempi non sospetti, fu lui a parlare della famosa “fattoria dei troll” da cui avrebbero operato già nel 2015, smentisce – di fatto – gli allarmismi da film demenziale di Molinari e soci. Parlando al talk-show politico di Chris Hayes sulla Msnbc, ecco come ha descritto il quadretto destabilizzante: «Sono 90 persone con un inglese stentato che una conoscenza rudimentale della politica Usa che scrivono ca**te su Facebook». Accidenti che pericolo! Eppure La Stampa ha anche inviato un giornalista a New York per seguire la vicenda: nel televisore in albergo non prendeva la Msnbc? Non ha letto i giornali Usa? O i loro siti Internet? Per completezza d’informazione – sono certo di aver letto da qualche parte che è uno dei doveri di un giornalista – sarebbe stato carino mettere anche solo due righe – di passaggio – relativo a quest’altra faccia della realtà nell’allarmante inchiesta su Twitter e i mestatori russi che, dopo l’America, puntano a destabilizzare il voto italiano, voi cosa dite? Accidenti, che storiaccia. 

Dunque, nientemeno che l’ex direttore dell’Fbi, Robert Mueller, ha messo insieme una sorta di task force di investigatori, divenuti membri del suo Special Counsel, i quali hanno lavorato così alacremente da aver portato all’atto d’accusa verso 13 cittadini russi e 3 entità per aver sabotato e destabilizzato le elezioni: questo, dopo un anno di indagini. E, parola del vice-procuratore generale, Rod Rosenstein in conferenza stampa venerdì scorso dal ministero della Giustizia Usa, tutto questo cosa ha portato? «Zero impatto sulle elezioni». 

https://twitter.com/ABCPolitics/status/964570493398409216/video/1

Insomma, una colossale bufala che dura da un anno e che riempie i giornali, togliendo in questo modo spazio ad altre notizie. Magari quelle più scomode per i veri manovratori della politica Usa. Quelli che stanno decisamente festeggiando quanto descritto nel grafico più in basso, ovvero il fatto che senza apparente motivo, il titolo della Boeing abbia sfondato ogni record al rialzo: saranno i venti di guerra in Siria? Quelli contro l’Iran? O quelli proprio contro la Russia, attraverso il proxy della Nato, come abbiamo avuto modo di intendere alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, dove Francia e Germania hanno parlato chiaramente di necessità di difesa europea contro Mosca extra-Alleanza atlantica? 

Vuoi vedere che serviva un po’ di sano warfare per l’esangue Pil statunitense, alla faccia della narrativa dell’economia che scoppia di salute (tema di cui parleremo diffusamente nei prossimi giorni)? Vuoi vedere che il principale beneficiario della macchiettistica – ancorché vergognosa – campagna maccartista in atto negli Usa e in Europa sia il complesso bellico-industriale statunitense, ovvero il referente economico del Deep State e del governo-ombra, quello che – per capirci – fa capo al vice-presidente, il guerrafondaio in servizio permanente ed effettivo, Mike Pence? Ora, io non ho niente di personale né contro Maurizio Molinari, né tantomeno verso il quotidiano che dirige, ma non è accettabile dedicare due prime pagine a una bufala – spacciandosi contemporaneamente come paladino della lotta alle fake news – e nascondendo quello che, citando i Pink Floyd, potremmo chiamare il lato oscuro della luna: ovvero, la verità. O una parte di essa. Comunque, qualcosa che merita di essere raccontato, ancorché scomodo. Perché il sottoscritto è un signor nessuno, non va in tv, non scrive libri promozionati ovunque, non incontra diplomatici e politici altolocati: si limita a scrivere ciò che ritiene interessante far sapere da questo sito, onesto ma piccolo, rispetto a certe corazzate. Le quali creano opinione pubblica, informano. O, come in questo caso, manipolano e creano falsamente e strumentalmente timori, esattamente l’accusa che viene mossa contro i russi brutti e cattivi che Molinari vede ovunque, anche nel frigorifero dietro il vasetto dello yogurt. 

Volete che ve ne racconti un’altra, sempre proveniente dal paradiso del bene assoluto d’Oltreoceano e che non mi pare il valente inviato di qualche grande giornale abbia riportato? Bene, sull’onda emozionale della strage nella scuola in Florida, giornali e tg ci mostrano da due giorni le proteste di studenti e insegnanti contro Trump e la sua politica di lassismo nei confronti della politica di armi facili vigente negli Usa, di fatto perché la Nra, la lobby egli armaioli, ha finanziato riccamente la campagna elettorale del tycoon, come ha fatto sempre con tutti i candidati Repubblicani. L’altro giorno, l’agenzia Bloomberg ha fatto una scoperta: il piano pensionistico statale della Florida, Stato teatro della strage, ha infatti in portafoglio investimenti azionari per 2.416 unità, 37 miliardi di dollari di market cap e sapete chi la fa da padrone? Le 41.129 azioni della American Outdoor Brands, stando a documenti al 31 dicembre scorso. E di cosa si tratta? Articoli sportivi? Ristorazione? No, si tratta del nuovo nome della Smith & Wesson, famosissima casa produttrice di armi, tra cui il fucile d’assalto AR-15 usato proprio nella strage alla Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland! Insomma, molti insegnanti che piangono gli alunni morti e maledicono le armi e la Casa Bianca hanno affidato i soldi della loro pensione a un fondo che investe riccamente nei produttori di armi, senza particolari problemi di coscienza! 

E non basta, perché i nostri simpatici professori inconsolabili hanno nel loro piano di investimento pensionistico anche titoli di Sturm & Ruger, Vista Outdoor e Olin Corporation, altre tre primarie aziende costruttrici di armi, tra cui i famigerati fucili d’assalto di cui si vorrebbe limitare la possibilità di libero acquisto o manipolazione per potenziarli. Interessante, vero? Almeno, lo è per me. E anche per Bloomberg che ha fatto una vera inchiesta, scoprendolo. Ripeto, nulla di personale contro Molinari o La Stampa (così come contro Repubblica e la sua delirante campagna contro il pericolo fascista, cui bisognerebbe però chiedere conto per quanto accaduto l’altro giorno in una strada di Palermo, se vale la proprietà transitiva applicata a Salvini come mandante dei fatti di Macerata), ma il potere che hanno nelle loro mani è troppo grande, perché non debbano subire – in vista di un voto delicatissimo, importantissimo e con tensioni già alle stelle come quello del 4 marzo – le attenzione dei cani da guardia. Seppur di piccola taglia. Come me.