Avete notato come, tanto per cambiare, i mercati siano spariti dalle prime pagine dei giornali e dalle aperture dei tg? Qualche giorno di panico in stile 2008 e poi, puff: tutto sparito, tutto tornato alla normalità, cieli sempre blu a perdita d’occhio. Mica tanto. O, almeno, non sotto il pelo dell’acqua, dove di solito si annidano gli iceberg. E, quindi, i pericoli veri, non le opzioni sul Vix maneggiate da insegnanti e idraulici che si ritrovano – giustamente – con una mano davanti e una di dietro dalla sera alla mattina. Per carità, niente per cui saltare sulla sedia o procurarsi una calvizie, strappandosi i capelli per la disperazione, ma il grafico più in basso ci mostra che sott’acqua c’è tensione, esattamente nello stesso settore che rimandò i primi sinistri scricchiolii alla vigilia dell’ultima grande crisi, segnali che i più attenti e i meno ottimisti/creduloni colsero al volo, salvando almeno il salvabile (e, spesso, rifilando fregature sesquipedali agli altri). 



Cosa ci dice questo grafico? Che il tasso overnight sul Libor, ovvero il tasso di riferimento per i mercati finanziari europei, è un filino esploso l’altra notte, un ampliamento di 32,7 punti base, il massimo dal 22 febbraio: senza apparente motivo, visto che di mercati non parla più nessuno e tutto va benissimo. Perché quell’indicatore molto osservato dai trader, quando si parla di dollari, dimostra di avere il febbrone? Oltretutto, siamo alla 12ma sessione di aumento di fila, quindi c’è qualcosa di strutturale, almeno nel breve termine: c’è carenza di dollari nell’aria e il mercato interbancario comincia a fibrillare? Sì. E questa dinamica ha un nome – la comunità finanziaria è meravigliosa nel voler sempre ribattezzare al volo le sciagure -, per l’esattezza echo taper: Di cosa si tratta? Di un qualcosa che rischia di accompagnarci per tutto il 2018, principalmente perché legato a due variabili molto grosse: primo, la riforma fiscale Usa;sSecondo, la sopravvivenza della corporate America e di Wall Street. Vediamo di spiegare la questione nel modo più semplice possibile. 



La stagione degli utili del 4° trimestre ha visto le principali aziende Usa – nomi grossi, tipo Apple, Amazon e compagnia miliardaria – annunciare il rimpatrio dei fondi depositati oversee, ovvero all’estero. Addirittura, la creatura di Steve Jobs ha reso noto che porterà la sua net cash position da 163 miliardi di dollari a zero: avete capito bene. Come mai? Una ragione è strettamente connessa all’aumento dei tassi e al rischio che la Fed intervenga fra le 4 e le 5 volte quest’anno, dando vita a una reazione auto-alimentante del sistema: perché, quindi, emettere debito per finanziare i buybacks – resi più cari e meno profittevoli proprio dall’aumento del costo del denaro – o staccare dividendi e bonus (non sia mai che non sappiano cosa portare in tavola per cena), quando c’è tanto cash depositato e dormiente all’estero che si può riportare a casa e utilizzare (senza aggravi di costi sul prestito) per scopi decisamente utili in periodi di rischio alle porte? 



Ed ecco, ad esempio, un’altra spiegazione del fenomeno: molte aziende Usa, consce della preoccupante esposizione debitoria su cui siedono (la media è passata da 4 miliardi del 2014 ai circa 10 di oggi), hanno infatti deciso di utilizzare i dollari esteri per il servizio di quel debito, almeno in parte. È il caso di Coca Cola, la quale ha reso noto che intende «ridurre il debito in essere di circa 7 miliardi di dollari utilizzando contante attualmente detenuto oversee», oppure Amgen Incorporated, la quale proprio l’altro giorno ha emesso un comunicato nel quale si dice che «potremmo trovare prudente pagare parte del debito che sta per arrivare a scadenza in contanti, piuttosto che rifinanziarlo sul mercato». 

Cosa sanno che noi non sappiamo? Cosa sta arrivando sul mercato per far cambiare atteggiamento di colpo, dopo anni di vacche grasse a spese della Fed, alle più grosse aziende del mondo? Insomma, se i proclami si tradurranno in fatti, la corporate America, quella che i grandi giornali vi dipingono come sanissima e che invece io vi dico da mesi che annega nel debito, sta per darmi ragione con i fatti e lanciare una campagna di deleverage in grande stile. E, con buone probabilità, deleverage netto, nemmeno lordo. Perché? Paura per i tassi in salita e crescita delle spese in interessi conseguenti: colpa della Fed? Dell’inflazione? No, del fatto di essersi indebitati come pazzi. Ma, almeno loro, sanno guardare in faccia la realtà pragmaticamente, quando di mezzo c’è davvero la ghirba: in Europa, invece, le aziende pensano che la Bce continuerà a comprare debito corporate all’infinito. 

Che brutto risveglio che ci aspetta, non a caso Ray Dalio ha piazzato 22 miliardi di scommesse short sulle grandi corporation dell’eurozona. Insomma, quello stress sul Libor-Ois non deve ancora generare panico, ma nemmeno lasciarci tutti tranquilli a rimirare gli unicorni che ci vengono mostrati da politici e grandi media: se la corporate America si muove in questo modo, in massa e su volumi che paiono notevoli, qualcosa sotto il pelo dell’acqua c’è. E potrebbe non essere un branzino. D’altronde, cari lettori, gli americani sono bravissimi a vendere il rame come fosse oro, ma non sono stupidi: almeno, la loro élite finanziaria – per quanto disprezzabile – non è stupida per nulla. Anzi. Lo sa come stanno le cose davvero, quindi tira la corda finché è possibile, ma, un minuto prima che questa si spezzi, molla e va a nascondersi: quanti grandi manager e decisori sono finiti in galera per il disastro del 2008? Tutti imboscati, un istante prima del tonfo. 

Ora, guardate questi tre grafici e capirete tutto, senza che io debba dilungarmi troppo. Partiamo dal primo: mercoledì della scorsa settimana il Tesoro Usa ha fornito l’ultimo aggiornamento sul debito federale (linea rossa del grafico) e, sorpresa, era salito di 50 miliardi dal giorno precedente, a quota 20,75 triliardi di dollari. A partire dall’ultimo passaggio del cosiddetto debt ceiling federale – il “tetto di debito” – stiamo parlando di un aumento di 266 miliardi di dollari, testimoniato dalla ratio debito/Pil (linea blu del grafico), salita al 105%. Bei numeri, non c’è che dire, ma c’è un problema accessorio: se si vuole che l’economia americana continui a crescere, come misurata dal dato del Pil (ovvero lo scostamento annuale di tutti i beni prodotti e i servizi forniti negli Usa), occorre prendere atto di quanto ci dice il secondo grafico. E cioè che la crescita statunitense è basata unicamente sull’aumento del debito federale, peggio del Pentapartito della Prima Repubblica! 

Senza la spesa in deficit del governo, l’economia sarebbe semplicemente in contrazione. Dal 2008, un anno a caso, le spesa a deficit annuale è stata molto maggiore dell’attività economica che questa ha prodotto: la differenza netta è chiara nel grafico, se prendiamo il dato dal 1950 al 2017, unendo a questo anche le stime fino al 2025 basate su un crescita media del Pil annuale al 2,5% e 1,2 triliardi annuali di deficit. Non è una bella figura macro, posso garantirvelo. Eppure, questa è stata la grande ripresa economica garantita da Barack Obama e dalla Fed: deficit e debito federale come se piovesse, la narrativa da spacciare al mondo la pagheranno figli e nipoti! Vi ricorda qualche altro Paese? Se poi prendiamo una crescita media del 3,5% del Pil (ammesso e non concesso che non arrivi una recessione, come il deleverage della corporate America pare invece farci intendere) e “solo” 1 triliardo annuale di deficit, l’America comunque sarebbe in arretramento. 

Volete conoscere l’impatto cumulativo di tutto quel deficit? Il terzo grafico fa al caso nostro: il debito federale (linea rossa) è a quota 20,8 triliardi di dollari e le spese annuali per interessi (linea blu) stanno esplodendo, oggi oltre il mezzo triliardo. Ma attenzione, da qui al 2025 – stando al budget da malato di mente presentato da Donald Trump, salutato come miracoloso da quelle menti eccelse del nostro centrodestra – l’America dovrà emettere debito con il badile per finanziarsi, quindi le spese per interessi saliranno ulteriormente su tutto quel debito, questo anche se – essendo ottimisti e conservativi – il tasso da pagare si fermi a un’armonizzato 4%. Chi si comprerà tutto quel debito Usa, unico modo per mantenere l’economia statunitense sui binari e non farla deragliare in una recessione devastante? La Cina? Il Giappone che a gennaio ha venduto Treasuries con il badile? O, magari, i cosiddetti Blics (Belgio, Lussemburgo, Irlanda, Cayman Island e Svizzera)? 

In totale, i detentori esteri di debito Usa avevano in mano un controvalore di circa 6,3 triliardi di dollari a fine 2014, quando terminò il Qe e da allora sono praticamente entrati in sciopero degli acquisti, avendo aggiunto carta solo per un controvalore di 150 miliardi di dollari in circa tre anni. Parliamo, attualmente, di un mercato totale – quello delle notes statunitensi – di circa 21 triliardi di dollari. E che, budget alla mano, sarà costretto a crescere a dismisura, a meno che le promesse di Trump non vengano cestinate. Insomma, se gli stranieri non comprano, chi può essere il buyer in grado di far piazzare al Tesoro tutto quel debito necessario a finanziare la crescita, in stile Urss? Ma la Fed! La quale sta sì dando vita all’operazione di taper dei suoi acquisti compiuti nei vari cicli di Qe, passando da 4,5 triliardi a 2,2 triliardi di carta Usa a bilancio da oggi al 2022, ma questo significa che da qui a quattro anni ci saranno sul mercato, da piazzare, 250 miliardi di debito statunitense in più all’anno, oltre a un triliardo di nuove emissioni e alcuni triliardi su cui fare roll-over ogni anno che il Signore manda in terra: capito perché Wall Street ha paura, comincia il deleverage e si prepara al peggio, mentre in Europa fischiamo ancora l’Aida, pensando che SuperMario Draghi faccia ancora il miracolo del whatever it takes? 

Tutto questo cosa significa? Semplice, che gli Usa hanno bisogno che la Fed cambi completamente indirizzo politico e torni a stampare e monetizzare debito, sempre di più: altro che taper, serve altro Qe. E di quelli da paura. Ma cosa occorre per ottenere questo risultato, evitando che il panico generalizzato di una mossa simile faccia crollare veramente tutto questa volta, senza far prigionieri? Uno shock sui mercati, una crisi, una guerra combattuta e non dichiarata: qualcosa che renda giustificabile e anzi auspicabile e quasi automatico al buon senso (e all’istinto di sopravvivenza globale) l’intervento nuovamente espansivo della Fed a livello monetario. A vostro avviso, gli Usa così svegli nel prepararsi al peggio, lasceranno che questo evento accada in casa loro o faranno in modo che la bomba esploda in casa del vicino, sortendo lo stesso effetto “assicurativo” e di emergenza ma senza danni diretti? 

Rifletteteci. E ricordatevi le scadenze politiche cui va incontro l’Europa e il fatto che, in un modo o nell’altro, la Bce non è eterna. Soprattutto se a qualcuno serve che non lo sia.