I segnali di una moderata tensione non mancano. Dopo un avvio d’anno eccellente, Piazza Affari ha chiuso la settimana finanziaria agli ultimi posti tra i listini dell’Eurozona. Lo spread tra Btp e Bund è risalito a 137 punti, seppur molto al di sotto dei picchi toccati durante la crisi del 2011/12. L’allarme di Jean-Claude Juncker sul rischio di un “governo non operativo” in Italia dopo il voto si spiega anche con un timido accenno di preoccupazione dei mercati che, a onor del vero, hanno finora largamente snobbato il rischio Italia sia sul fronte obbligazionario che su quello di Piazza Affari. 



A differenza di quanto successo un anno fa in occasione del voto francese, la speculazione internazionale non ha preso sul serio la minaccia di una possibile uscita dell’Italia dall’euro. Nemmeno il rischio contagio per un eventuale collasso delle finanze di casa nostra, sempre possibile visto il livello del rapporto debito/Pil (il 133% circa, nonostante la politica accomodante della Bce), preoccupa più di tanto: le banche dell’Eurozona hanno da tempo ridotto al minimo fisiologico i rapporti con il sistema italiano; gli operatori finanziari preferiscono scommettere su Spagna e Portogallo (ma anche sulla Grecia) piuttosto che esporsi su uno scenario per molti versi indecifrabile. La situazione, semmai, rischia di deteriorarsi nel prossimo futuro, ma per effetto dell’aumento dei tassi Usa, non delle piroette politiche nostrane. 



Ancor più distante dalle preoccupazioni politiche sembra Piazza Affari. Certo, nelle scorse settimane si è fatto un gran parlare delle scommesse al ribasso degli hedge funds Usa. Ma le vendite effettuate da Bridgewater non si sono limitate all’Italia, bensì si sono concentrate su alcuni titoli leader dei listini europei, a partire da Siemens, nella convinzione (tutt’altro che convincente) di una ritirata generale rispetto agli Usa. Per l’Italia, le vendite si sono concentrate su Moncler, il titolo più effervescente del sistema moda che continua a bruciare record e che, tra l’altro, registra i due terzi del suo giro di affari in Asia. 



Difficile, a questo punto, immaginare una congiura ai danni dell’Italia comunque vada il voto. Anche perché buona parte delle grandi imprese, da Fiat Chrysler a Pirelli fino a Stmicroelectronics o alla stessa Enel, è assai più esposta verso i mercati internazionali che non sul fronte domestico. Da non trascurare, poi, la grande novità dei Pir, i piani individuali di risparmio che nel primo anno di vita hanno raccolto più di 10 miliardi di euro, stracciando le previsioni iniziali (non più di 2 miliardi). Il trend è destinato a continuare anche quest’anno, convogliando capitali sul mercato italiano, qualunque sia l’esito del voto. 

Molte ragioni, insomma, consigliano di non attribuire troppo peso all’allarme, in parte corretto, di Juncker. È sensato attendersi un moderato aumento delle tensioni, più sul fronte domestico che dalla speculazione internazionale. Ma un attacco massiccio verso il Bel Paese è sconsigliato sia dall’abbondante liquidità a disposizione della Bce che per la forza della ripresa dell’economia, industria in testa.

Infine, la presenza di “governi non operativi” non è una novità assoluta per l’Unione europea. Il Belgio è rimasto senza esecutivo per più di un anno, l’Olanda idem. Le sorti della Germania sono affidate all’esito del referendum tra i socialdemocratici. Un’eventuale fase di stallo a Roma non sarebbe perciò un’eccezione. Semmai il rischio è l’opposto. Stante le promesse elettorali di buona parte dei partiti, un eventuale “governo operativo” potrebbe mettere a grave rischio le già traballanti sorti della finanza pubblica nostrana. Al contrario, un non governo alla belga, in cui l’esecutivo uscente si limitasse a contenere la spesa all’ordinaria amministrazione, evitando nuovi impegni, sarebbe il benvenuto. 

Si profila finalmente una stagione in cui la crescita sarà sensibilmente superiore al tasso di inflazione, con grande beneficio per il rientro della spesa pubblica entro gli argini. L’unico rischio è che un vincitore intenda dar corso alle “riforme” promesse compromettendo l’opera di Mario Draghi. No, monsieur Juncker, un governo “non operativo” non sarebbe la peggiore delle iatture.