Non so se avete visto Caro diario di Nanni Moretti: beh, in giornate come quella di ieri mi riconosco a pieno nella frase in cui il regista ammette la sua consapevole diversità, sostenendo che – anche in un mondo migliore di quello attuale – sarebbe d’accordo sempre e comunque solo con una minoranza di persone. Anzi, in questo caso, con un’esigua, residuale minoranza. Per una volta, infatti, che Jean-Claude Juncker dice qualcosa di sensato, l’arco parlamentare più diviso del mondo – il nostro – trova una ragione di unione e concordia nel massacrarlo. E cosa ha detto di tanto strano il capo della Commissione Ue? Che in vista del voto italiano del 4 marzo, occorre prepararsi – come Europa – allo scenario peggiore, cioè l’impasse politica e un governo non operativo. 



Chiedo scusa, ma fino all’altro giorno non c’era almeno metà Paese che diceva lo stesso, giubilando quella solenne porcata costituzionale che in effetti è il Rosatellum-bis, la nostra disgraziata legge elettorale nata proprio per garantire l’ingovernabilità e favorire l’inciucio taglia-estremismi del post-urne? Se lo dice Juncker non va bene? E poi, per favore, evitiamo idiozie tipo prefigurare la turbativa dei mercati per lo scivolone temporaneo di Piazza Affari dopo la frase del nostro amato SuperCiuk: lui avrà certamente sbagliato modo e tempi, pur dicendo la verità, ma vi ricordo che siamo il Paese in cui Alitalia e Mps restavano in contrattazione mentre politica e presunto mondo dell’imprenditoria ne decidevano le sorti a tavolino, spesso in studi e uffici privati. 



E, tra l’altro, sempre Juncker ha aggiunto dell’altro, ovviamente non sottolineato dagli indignati speciali: ovvero, che l’Europa deve prepararsi a un attacco speculativo e a mercati – questa volta sì – turbolenti, proprio dopo il voto nel nostro Paese, nella seconda metà di marzo. È il suo compito, mettere in guardia, almeno nelle poche occasioni in cui è sobrio: perché, una volta che assolve a questo compito, lo massacriamo? Coda di paglia? Rigurgito nazionalista degno di miglior causa, essendo questo il Paese che ha messo il pareggio di bilancio in Costituzione e approvato il Fiscal compact senza battere ciglio e anzi ringraziando Bruxelles? Non mi pare, tra l’altro, che dalla Bce si siano alzati alti lai contro l’allarme di Juncker: sicuri che siano tutti stupidi e quelli intelligenti siano solo gli italiani e il loro residuo orgoglio sovranista ferito? 



Già, perché negli ultimi dieci anni ci siamo fatti spogliare, in nome dell’emergenza spread e post-crisi, da ogni diritto e prerogativa nazionale, salvo ora travestirci da Cesare Battisti: non perdiamo occasione per mostrare la nostra propensione al ridicolo. Scusate, un Paese dove tutti i partiti – ribadisco tutti – stanno promettendo il mondo degli unicorni del deficit, con misure da 1.000 miliardi di euro e capaci di portare la ratio debito/Pil al 140% – quando dovremmo abbassarla, almeno da una ventina d’anni – cosa si aspetta che gli venga detto da Bruxelles, che siamo sulla strada giusta? Vogliamo anche un applauso? Di fronte alla flat tax e al condono di ritorno del centrodestra, occorre applaudire? E di fronte alle ricette del Movimento 5 Stelle, degne di Maduro sotto ketamina, occorre giubilare? Vogliamo parlare degli una tantum, delle manovre spot, degli incentivi e delle mancette dei governi a guida Pd, per caso? Siamo seri, Juncker ha sbagliato nella forma e nei tempi, in maniera marchiana, ma nella sostanza ha detto una sacrosanta verità. Scomoda e sgradevole da dover accettare, ma verità resta. 

E, poi, se la frase del numero uno della Commissione fosse stata, in realtà, un assist – l’ennesimo in arrivo dall’Ue – per Paolo Gentiloni e l’ipotesi di una prosecuzione del suo mandato a palazzo Chigi? Pensateci, non a caso il premier in pectore è intervenuto subito per rassicurare, ma con toni molto pacati, tipici del suo stile. E di chi si sta giocando le sue carte, come ha detto sornione e infido lo stesso Matteo Renzi pochi giorni fa. Nella stessa giornata, poi, il buon Matteo Salvini ha inviato un messaggio tanto criptico quanto in realtà chiaro: visitando un centro di accoglienza nel bolognese, mi pare, ha detto chiaro e tondo che quando sarà ministro dell’Interno, certe cose cambieranno drasticamente. Ministro dell’interno? E tutti quei bei manifesti blu in stile Trump con la scritta “Salvini premier” che oggi orneranno il palco di piazza del Duomo a Milano, sede della manifestazione leghista in vista del voto, che fine faranno? Li userà per addobbare casa il giorno del compleanno? Li terrà da parte per donarli ai nipoti, raccontando loro i mitici giorni dell’inverno elettorale 2017-2018?

Il tutto, bene attenti, dopo che il giorno prima – da sovranista anti-euro duro e puro qual è – aveva aperto all’ipotesi berlusconiana di Tajani o Draghi come premier di un ipotetico governo di centrodestra che uscisse dalle urne, a patto che i due sottoscrivessero il programma elettorale della coalizione. A parte che me lo vedo proprio il governatore della Bce che sposa la flat tax o le tesi di Bagnai e Borghi sull’euro, essendo lui l’uomo del whatever it takes, cos’è successo? Forse siamo dentro un enorme gioco delle parti, dal quale pare esclusa unicamente Giorgia Meloni, ancora convinta di essere all’interno di una coalizione paritetica e di una campagna elettorale reale, ovvero dove le due coalizioni corrono per vincere e non unicamente per evitare troppi morti sul terreno, limitando i danni a dei feriti non gravi? E la colpa sarebbe di Juncker? È il capo della Commissione Ue ad aver paracadutato Maria Elena Boschi nel collegio di Bolzano, riuscendo nel miracolo di spaccare il Pd anche in una roccaforte come quella altoatesina, visto il patto pressoché di sangue vigente da decenni fra sinistra e Sudtiroler Volkspartei? È serietà politica, questa? 

E a proposito della Boschi: mentre prende confidenza con la sua nuova vita politica da militante delle case del popolo, il buon Pier Ferdinando Casini ha nulla da dirci sulla relazione finale della Commissione d’inchiesta sul sistema bancario? Sparita nel nulla, dopo che per settimane era sembrata un misto fra il Watergate e la strage di Ustica. È serio, forse, scomodare lo spettro dello spread per giubilare l’ex numero uno lussemburghese, visto che non solo il nostro differenziale rispetto al Bund si è mosso con la repentinità di un pachiderma – è passato da 142 a 147, sai che disastro! – ma che finché la Bce compra, quel differenziale rappresenta un indicatore solo formale, utile quanto un ventilatore e un paio di infradito in pieno dicembre? E poi, scusate, ma avete visto cosa è accaduto giovedì sera per le strade del centro di Torino, solo per citare l’ultimo episodio di violenza politica fra risorgenti, opposti estremismi? Siamo nella replica, un po’ patetica e grazie al cielo senza bombe nelle piazze o sui vagoni, del 1977 e ci scandalizziamo se Juncker fa notare che, al netto della legge elettorale pro-inciucio o ritorno alle urne in autunno, c’è da attendersi dalle urne italiane il worst case scenario, ovvero l’ingovernabilità? 

Siamo un Paese spaccato in due tra fascismo e antifascismo all’alba dell’anno del Signore 2018 e l’Ue non dovrebbe preoccuparsi, al netto che il mio giudizio sull’Europa non cambia, ma non è certo legato a un formalismo di richiamo come quello giunto l’altro giorno? Perché quando a muovere endorsement formali o “auspici” elettorali (vedi il referendum costituzionale del dicembre 2016), più o meno velati, è l’ambasciatore Usa in Italia o direttamente il Dipartimento di Stato, quello che accusa la Russia di interferire nei voti di Paesi sovrani (gli Usa non l’hanno mai fatto dal Dopoguerra in poi, in tre quarti del mondo, ci mancherebbe) a muovere critiche sono sempre i soliti quattro gatti – tacciati di anti-americanismo o populismo – e adesso che a farlo è chi fra un mese ci vorrà sul banco di scuola a trovare 5 miliardi di euro per la manovra correttiva, resa necessaria dalle mance e dai provvedimenti spot dei governi Renzi-Gentiloni, non va bene? Forse perché la paura per quell’appuntamento ora comincia a sentirsi, come per un esame che si vedeva tanto lontano e che invece è ormai alle porte e con tutti i libri ancora da studiare, non avendoli nemmeno aperti (d’altronde, l’antifascismo è prioritario rispetto ai conti pubblici, non vi pare)? 

E attenzione, perché al netto di quanto ho scritto ieri sulla mossa d’anticipo delle aziende Usa rispetto al deleverage e al rischio sui tassi, in Europa non è tutto rose e fiori. Gli stessi esponenti del Consiglio direttivo della Banca centrale europea hanno ritenuto fosse prematuro modificare il messaggio di politica monetaria per segnalare una sua prossima normalizzazione, nonostante la crescente fiducia sulla risalita dell’inflazione verso il target della Bce. Non lo dico io, è quanto è emerso giovedì dai resoconti del consiglio di politica monetaria dello scorso 25 gennaio, in cui è stata indicata la possibilità di un aggiustamento del messaggio nella prima parte di quest’anno, sottolineando la necessità di evitare brusche correzioni di rotta successive e di monitorare gli effetti dell’apprezzamento dell’euro. 

I membri del board hanno, infatti, riconosciuto che un annuncio sul Quantitative easing potrebbe arrivare «in uno dei prossimi meeting di politica monetaria». Comunque sia, si legge nei verbali, «sebbene ci siano ragioni per essere sempre più fiduciosi sull’outlook dell’inflazione, la pazienza e la persistenza riguardo alla politica monetaria sono ancora necessarie». Come dire, se il Qe finisce viene giù tutto il Club Med dell’eurozona e siccome l’Italia ne fa parte è in piena fibrillazione politica (quindi a rischio attacco speculativo) e, soprattutto, è davvero too big to fail, meglio far sapere ai mercati che la possibilità di proseguire con la stamperia di monetizzazione del debito e, soprattutto, di acquisti di bond corporate come risposta al rimpatri dei dollari oversee delle aziende Usa, è tutt’altro che peregrina. Anzi, potrebbe essere alle porte, già nella prima metà dell’anno in corso. Tutto vero? E chissenefrega, l’importante è creare l’aspettativa e nascondersi dietro il suo scudo protettivo, dopodiché si attende per capire se qualcuno ha davvero il coraggio di venire a vedere l’ennesimo bluff. 

Cosa dite, Juncker ha di fatto smentito le sue parole, facendo marcia indietro e recitando quasi un mea culpa? Se si chiama gioco delle parti, un motivo ci sarà. Chiedete a Paolo Gentiloni per conferme al riguardo.