Chiusura molto positiva per Wall Street venerdì scorso nell’ultima giornata di contrattazioni della settimana: il Dow Jones ha guadagnato l’1,39% chiudendo a 25.309,99 punti, il Nasdaq è avanzato dell’1,77% a 7.337,39 punti e l’indice S&P’s 500 è salito dell’1,60% a 2.747,30 punti. Oggi inizia una nuova settimana sui mercati: cosa dobbiamo attenderci? Stando alla vulgata generale e ai dati che ho appena enumerato, nulla di strano o di negativo. Eppure, come vi dicevo la scorsa settimana, i pericoli veri si annidano sotto il pelo dell’acqua, non stanno in bella mostra sul bagnasciuga. Ad esempio, guardate i tre grafici più in basso, relativi proprio alla giornata di venerdì scorso: l’Europa era positiva, Wall Street ha aperto e chiuso in spolvero, eppure a scontrarsi contro il dato percentuale degli indici in rialzo ci hanno pensato proprio questi tre grafici, i primi due dei quali ci confermano come sia il comparto del credito a rimandare scricchiolii sinistri, non ancora aquile ma certamente non più canarini nella miniera.
Se infatti l’alto rendimento venerdì tornava in dinamica simile ai giorni peggiori rispetto al Vix, ecco che anche l’investment grade statunitense conosceva un de-couple poco gradevole al riguardo: l’obbligazionario, a livello globale, vuole dirci qualcosa. Ignorarlo potrebbe risultare molto pericoloso. Il terzo grafico, poi, ci riguarda: perché sempre venerdì, il collasso della volatilità sui mercati europei è coinciso con un’impennata dello spread sul credito ad alto rendimento europeo. E chi fa parte di questa categoria? Molte aziende che non risultano sulla lista di quelle in crisi o a rischio per una semplice ragione: gli acquisti di bond corporate della Bce garantiscono loro una forma di finanziamento a costo zero che è di fatto una bombola di ossigeno vera e propria. Staccatela e vedrete che fine faranno: sicuri che va tutto bene, che l’allarme di Juncker fosse immotivato e che qualcuno non stia scherzando con il fuoco?
Anche perché questo altro grafico ci dice di peggio: la Cina, ovvero il grande bancomat globale di impulso creditizio in tempi di taper e ritiro degli stimoli, ha sospeso la pubblicazione del dato del Vix interno. Che romanticoni, hanno scelto San Valentino come ultima tracciatura: poi, silenzio di Stato per non turbare i mercati dopo i 5 giorni di chiusura per i festeggiamenti del nuovo anno lunare. Insomma, l’SSE 50 ETF Volatility Index non è momentaneamente disponibile, quindi i mercati salgano e tutto vada bene: lo ordina il Partito.
E, guarda caso, la soluzione – un po’ drastica – ha funzionato, almeno nell’immediato: il giorno dopo, l’indice principale cinese ha chiuso su del 2% e, soprattutto, il volume delle opzioni sul Vix del Dragone è calato del 40% rispetto alla media a 20 giorni: come dice il motto, you cant’ beat the system. O forse no. Perché nel silenzio generale dei media, nella notte fra giovedì e venerdì scorso la Cina ha vissuto il suo “Aig moment” quando ha di fatto salvato, prendendone il controllo a livello statale fino al 22 febbraio del 2019, la più grande società assicuratrice del Paese, Anbang Insurance, il cui ex presidente, Wu Xiaohiu, è stato rimosso e accusato formalmente di crimini economici rispetto a malversazione di fondi. Questa infografica ci mostra alcune delle proprietà estere del gruppo, un conglomerato cui fanno riferimento assets per qualcosa come 2 triliardi di yuan (316 miliardi di dollari): si va dall’assicurazione vita e non, al management di assets, al leasing finanziario fino ai servizi bancari.
E questa volta il rischio è stato davvero grande, visto che le stesse autorità cinesi – di solito omertose – hanno parlato chiaramente di un intervento reso necessario dalla sistemicità del soggetto. Anbang è infatti uno dei pilastri su cui si regge quell’enorme schema Ponzi che è lo shadow banking cinese, soprattutto rispetto a quei prodotti derivati spacciati come polizze vite innocue per casalinghe e portantini che invece hanno sottostanti e catene di controparte in grado di mandare a zampe all’aria milioni di cittadini, piccole e medie imprese e banche di medio livello. Insomma, Anbang andava salvata per forza, altrimenti il meraviglioso mondo degli assets legati ai famigerati Wmp (Wealth Management Products) avrebbe potuto scatenare un panico tale da innescare un bank-run generalizzata su qualcosa come 8,5 triliardi di controvalore potenziale del sistema bancario ombra del Dragone, di fatto il tallone d’Achille di un castello di sabbia finanziario che, però, piaccia o meno sta mantenendo in equilibrio il mondo con il suo impulso creditizio continuo e con la sua generazione altrettanto continua di prestiti.
E cos’ha fatto l’Ente regolatore dei mercati, su ordine del governo? Ha preso il controllo dell’azienda, rimosso l’ex presidente e annegato le esangui casse con un’iniezione spaventosa di denaro in grado di garantire le linee di swap e operare una ristrutturazione “paracadutata”: per le autorità, infatti, «le operazioni illegali operate da Anbang potrebbero aver seriamente compromesso le capacità di solvibilità dell’azienda, costringendo il governo a prenderne il controllo». Inoltre, tanto per dare un quadro generale di cosa sia il sistema bancario ombra che regge la Cina, la China Banking Regulatory Commission ha ordinato ad alcuni istituti di credito – tra cui China Development Bank, Export-Import Bank of China, Bank of China, China Construction Bank e China Citic Bank – di continuare a fornire capitale operativo all’Hna Group, un altro mega-conglomerato sistemico e di non accelerare le richieste di rientro sui prestiti: come dire, garantisce lo Stato. Per quanto e per quanti soggetti, però?
Anche perché, almeno formalmente, il presidente Xi Jinping aveva altri progetti per l’economia cinese, ovvero un suo sviluppo che portasse all’affrancamento dal vecchio modello della sovra-produzione di massa (legata a doppio filo proprio alla politica di prestiti allegri e a pioggia) e che aprisse ai consumi interni e al settore dei servizi: se dovesse partire una catena di default tale da far intervenire lo Stato in maniera pressoché totale nel sistema, impiegando triliardi di dollari per tamponare le falle, cosa sarebbe di quei piani? E, soprattutto, della relativa certezza del mercato rispetto all’impegno tacito e non scritto di Pechino di continuare a sostenere i mercati finanziari globali con i suoi yuan in cambio di tolleranza sostanziale verso manipolazione di mercato e della valuta, esportazione di deflazione e dumping commerciale sistematico?
E non basta, perché sempre sul finire della scorsa settimana, in quello che è parso un inquietante deja vù dell’estate 2017, i regolatori cinesi sono dovuti intervenire e molte aziende cinesi quotate in Borsa sono state obbligate a bloccare il trading, visto che i management tentavano di scaricare i rischi delle scommesse fatte utilizzando i titoli azionari delle ditte come collaterale per prestiti. E, guarda caso, ecco spiegate le pessime performance dei titoli azionari cinesi delle ultime settimane: sempre più azionisti sono stati risucchiati in margin calls auto-alimentanti e figlie legittime di quelle pratiche, forzando liquidazioni di titoli e quindi il loro deprezzamento. E cosa succede con il crollo del valore? Altre liquidazioni che spingono ulteriormente al ribasso le azioni e così via, in un loop infernale e potenzialmente letale.
Insomma, in Cina molte aziende non stanno contrattando, sono sospese e non perché vittime di attacchi speculativi ma perché protagoniste di pratiche truffaldine che lo Stato è costretto a coprire: o prendendone il controllo o inventandosi sospensioni dal trading per evitare che le margin calls diventino crolli sistemici della catena del collaterale. E, quindi, il più classico degli effetti domino. Possibile che una realtà simile non abbia meritato un singolo articolo della stampa o uno striminzito titolo di un tg, magari nell’edizione della notte? Occorrerà ancora attendere i crolli di sistema di due estati fa, quando sembrava che Pechino potesse tramutare la crisi del 2008 in una passeggiata nel parco, fra sistema bancario ombra e massaie che giocavano a fare Gordon Gekko, perdendo tutto in poche ore di trading on-line di massa?
Certo, guardare sotto il pelo dell’acqua implica bagnarsi, mentre stare sdraiati sul lettino in spiaggia è molto più gradevole (e asciutto), ma rimane il fatto che quanto accaduto in Cina fra giovedì e venerdì scorso non deve solo far riflettere ma anche fare decisamente paura, se riguardiamo un attimo l’infografica degli assets esteri di Anbang, la Aig cinese di cui nessuno vi ha dato conto. Deja vù della bolla real estate giapponese di fine anni Ottanta? Sperate di no, perché l’intero carrozzone cinese si regge sulla truffa legalizzata del sistema bancario ombra: se salta una tessera troppo grande del mosaico, si salvi chi può. E non potrà davvero quasi nessuno, questa volta.
E a proposito di Giappone: sempre venerdì scorso e senza che la stampa autorevole se ne accorgesse (nello stesso giorno IlSole24Ore si è però accorto del perverso utilizzo dei buybacks da parte di Wall Street, ben svegliati), un brutto segnale è arrivato da Hiroshi Ozeki, potente Cio della Nippon Assets, gigante assicurativo, il quale dopo aver mandato in soffitta per sempre l’ipotesi di uno scenario “Riccioli d’oro” per l’economia mondiale, ovvero positivo a prescindere come la pappa che è troppo calda o fredda o va bene (i tre scenari “moderati”), ma sempre pappa è, ha dichiarato che gli assets rischiosi sono comunque destinati a crollare di nuovo: «Ci sarà una correzione del mercato, è inevitabile. Da quando, nel 2012, è iniziata l’Abenomics, la nostra logica è stata quella di comprare sui minimi. Oggi posso dire che il nostro approccio è cambiato e che con valutazioni come quelle attuali, non incrementeremo la nostra posizione azionaria sul portafoglio. La fine dell’era di “Riccioli d’oro” sul mercato sta avvicinandosi, dobbiamo prepararci a un crollo dei prezzi». Ma è sul finale che Ozeki apre, quasi sicuramente in modo involontario, allo scenario peggiore: «Tutti stanno cercando di scorgere se si sta formando qualche bolla sul mercato. Io penso che il mercato dei bond governativi sia il più caro e che sarà proprio lì che si paleserà l’esplosione di una bolla, anche se non proprio subito».
E se lo dice un grande manager del Paese dove il decennale offre un rendimento inferiore allo 0,1% solo per i continui e strutturali interventi della Banca centrale, c’è poco da stare allegri. Ma tranquilli, una soluzione è già allo studio. Quale? Ma come, non avete notato come – sempre venerdì, quindi con due giorni di mercati chiusi per metabolizzare ed emergenzializzare per bene la notizia – la panzana del Russiagate abbia subito un’accelerazione repentina, dopo un anno di buchi nell’acqua? L’ex numero due della campagna elettorale di Trump, Rick Gates, si è di colpo pentito e si è detto pronto collaborare, forse per i 32 capi d’imputazione che rischia e i conseguenti anni di galera – nell’ordine delle centinaia – che lo attendono: fra le accuse, frode e riciclaggio. Come Al Capone che fu arrestato per evasione fiscale, non riuscendo a inventare nulla contro Mosca, ci si inventa altro.
E che dire di Paul Manafort, il quale pagò addirittura 2 milioni di dollari a politici europei per conto della cosiddetta “lobby Ucraina”? Bella mossa, Manafort inguaiato e Kiev scaricata (le casse dell’FMI ringraziano sentitamente): il Deep State sa fare il suo lavoro, tocca ammetterlo. Ma non basta. Gli Usa, guarda caso, sposteranno la loro ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme il 14 maggio prossimo, ovvero molto prima del previsto: boom, altra bella bomba a frammentazione nello stagno della destabilizzazione globale, dopo lo splendido lavoro che i “ribelli” coccolati dagli Usa stanno compiendo in Siria con l’assedio alla Goutha (per conferme, leggere le testimonianze dei religiosi intrappolati nel sobborgo martoriato). E vogliamo dimenticarci la Corea del Nord? Dopo giorni di retorica sulle Olimpiadi invernali sudcoreane come possibilità per la pace, ecco che sempre venerdì – accidenti che giornata affollata di eventi, eppure Wall Street ha chiuso in gran spolvero (Eppure? O, forse, proprio per questo?) – Donald Trump non solo ha annunciato un nuovo pacchetto di sanzioni contro Pyongyang, ma ha messo in guardia il mondo dal fatto che «se le nuove sanzioni falliranno, prepariamoci a una fase 2 molto, molto sfortunata rispetto al problema nordcoreano».
Cosa vi avevo detto non più tardi di due settimane fa? Sta saltando tutto, urge intervenire. E una bella guerra – guerreggiata però, non più annunciata – è la soluzione più rapida. Ed efficace, lo testimoniano almeno una cinquantina abbondante di anni d’esperienza, proprio da Corea e Vietnam in poi. Warfare, la risposta Usa a ogni problema. Buona settimana.