A ogni campagna elettorale si ripetono gli stessi riti: risse notturne per i candidati e programmi che sono nel migliore dei casi libri dei sogni. Il Movimento 5 Stelle, nonostante le sue pretese novità, è rimasto mani e piedi intrappolato nello stesso schema, con in più la nebbia tecnologica con la quale ha mascherato le scelte dei vertici, nebbia che non intende diradare. Non mancano differenze nelle proposte presentate agli elettori, anzi ce ne sono a bizzeffe e anche rilevanti, ma quel che accomuna l’offerta politica è la mancanza di una rotta chiara.



Tutti sono accomunati da una pericolosa convinzione: dare per scontato che l’Italia sia fuori dai guai e abbia imboccato la strada della crescita, quindi l’obiettivo è raccogliere i frutti e dividerli tra i propri elettori. Speriamo che le condizioni esterne dalle quali la ripresa dipende per larga parte (a cominciare dalla politica monetaria di Mario Draghi) non cambino, perché sarebbe una doccia ghiacciata per tutti, chiunque vinca e qualsiasi governo prenda forma dal 5 marzo in poi.



Il Movimento 5 Stelle che, secondo i sondaggi, sarebbe il primo partito, presenta voluminose e verbose analisi con altrettanto barocche conclusioni. Il punto di partenza è “l’economia circolare”, la grande rivoluzione rispetto alla “economia lineare” seguita non solo dall’Italia, ma dall’umanità intera a partire dalla rivoluzione industriale. Questa economia che assomiglia a una versione della “decrescita felice” dovrebbe essere realizzata attraverso “un intervento chiaro e programmato dello Stato… In questo obiettivo diventa fondamentale anche rivedere le politiche comunitarie che vietano talvolta l’intervento dello Stato e secondo cui la Bce può dare denaro solo alle Banche”. Lo Stato “è il principale protagonista” e le aziende di Stato non debbono più comportarsi in autonomia, come in passato. Bersaglio particolare dei grillini è l’Eni che “va riportata in Italia”.



Il corollario di questo neostatalismo al servizio di una riconversione ecologica, è “riportare la sovranità che si è spostata nei mercati all’interno degli Stati nazionali, poiché è il diritto che deve prevalere sull’economia e non viceversa”. Quindi, no al Fiscal compact, abolizione del pareggio di bilancio, referendum sull’euro (ma anche adozione di eurobond che presuppongono la permanenza nella moneta unica per un lungo periodo, la logica non è del mondo a cinque stelle). Va reintrodotto, ça va sans dire, l’articolo 18 ed esteso il reddito di cittadinanza. Le centinaia di pagine (pardon di file) contengono dettagliati elenchi e molteplici link, ma questa ci sembra l’impostazione di fondo.

Il programma del centrodestra, firmato da Berlusconi, Salvini, Fitto e Giorgia Meloni, ha molti punti in comune con quello dei pentastellati soprattutto sull’Unione europea e il recupero della sovranità, contro le politiche di austerità, contro la riforma delle pensioni (si parla di “azzeramento della legge Fornero”), contro il Jobs Act, tutto ciò porta l’impronta esplicita della Lega. La differenza sostanziale è la proposta principale di politica fiscale: la flat tax che implica non un aumento del peso e del ruolo dello Stato, ma una sua riduzione. È vero che il liberismo è ridimensionato dal fatto che viene dato più spazio alle amministrazioni locali (sempre di Stato si tratta, sia pur decentrato), tuttavia la distanza resta grande.

L’aliquota fiscale unica è senza dubbio una proposta forte, anche se non viene mai specificato quanto incide sul bilancio pubblico, come sarà finanziata, in che modo verrà realizzato il sistema di deduzioni e detrazioni che debbono rendere progressiva un’impostazione proporzionale che non fa parte del dettato costituzionale italiano. Soprattutto, non è chiaro se la versione italiana riuscirà a evitare la trappola in cui sono caduti i paesi nei quali è stata introdotta: cioè che i costi per la sua applicazione siano maggiori dei benefici e l’apparente semplicità fiscale non si traduca in un complicato intrico di eccezioni per categorie o per fasce di reddito. In ogni caso, il centrodestra su questo punto ha costretto il Pd sulla difensiva, tanto che il programma dei democratici si trova costretto a respingerla esplicitamente come una “ricetta miracolosa da apprendisti stregoni”.

Il partito di Renzi si definisce “la forza tranquilla del cambiamento” e chiede “più lavoro, più Europa, più cultura”. A ulteriori riforme del mercato del lavoro il Pd dedica tutta la prima parte del programma, con l’introduzione di un salario minimo accompagnato da una legge sulla rappresentanza sindacale e con gli incentivi per il lavoro a tempo indeterminato: “Ridurre il costo del lavoro di un punto all’anno per 4 anni, in modo che alla fine della prossima legislatura il costo dei contributi sia al 29% rispetto al 33% di oggi”. L’onere sarà fiscalizzato cioè a carico di tutti i contribuenti. Più modeste le proposte sul fisco dove spicca la riduzione dell’Ires al 22%, più l’estensione dei bonus anche ai lavoratori autonomi. C’è poi la pensione di garanzia per i giovani e il raddoppio dei fondi per il reddito d’inclusione. E le risorse? Verrebbero sostanzialmente da una maggiore spesa in deficit, pur rispettando il tetto del 3%, “la diminuzione del deficit nominale avverrà a un ritmo più lento rispetto ai vincoli troppo stretti sui quali sono calcolati gli attuali obiettivi programmatici di finanza pubblica”.

Come si concilia questo deficit spending sistematico con l’impegno a ridurre il debito pubblico al 100% del Pil in dieci anni e con lo slancio europeista che è forse la maggiore distinzione tra il Pd e le altre formazioni politiche? La domanda è retorica con risposta negativa. È vero, il partito di Renzi vuole “più Europa” (un ministro delle Finanze, un budget comune, eurobond e quant’altro), però vuole anche una Unione che guardi allo sviluppo e non solo alla stabilità. Tutte queste, però, sono speranze per il futuro. Il rischio è che il presente riserbi amare sorprese anche al Pd.

La questione non è solo fare un bagno di concretezza per non illudere gli elettori, ma è che questo diluvio di desideri, sia pur diversi tra loro, sembra talmente staccato dalla realtà da risultare poco plausibile. Qualche osservatore più smaliziato potrebbe dire: sono parole, aspettiamo i fatti. Già, ma ciò significa che si naviga a vista. Tanti timonieri, nessuna bussola.