Un tonfo occasionale, una grossa presa di beneficio o qualcosa di più? Cosa ci dice il bagno di sangue patito dallo Standard&Poor’s venerdì ma soprattutto quello del Dow Jones, il quale non conosceva una performance simile dal 2008, ovvero dai tempi di Lehman Brothers? Il mercato si è forse “svegliato”? Difficile dirlo con certezza, sicuramente il grafico più sotto parla chiaro: l’indicatore “Contagion risk” di Deutsche Bank è infatti ai massimi al 2012, qualcosa che deve far riflettere, se ricordiamo cosa accadde quell’anno e da quali presupposti macro si arrivasse. Certo, spazio di intervento per evitare reazioni a catena nel breve termine ce ne sono parecchi ancora, soprattutto alla luce di una narrativa che vorrebbe i mercati pervasi da un’euforia generalizzata figlia della politica economica degli Usa: difficile che a Washington, proprio ora, venga smentita questa retorica così pedissequamente e acriticamente sposata dalla gran parte dei media mondiali. Oltretutto, il fatto che la caduta degli dei della pianificazione centrale sia avvenuto di venerdì consente due giorni di break, durante i quali i vari attori potranno mettere a punto strategie per garantire un lunedì da leoni che fughi i dubbi, ma, soprattutto, le paure.
Non è un caso che Donald Trump proprio venerdì abbia deciso di pubblicare il controverso documento dei Repubblicani contro l’Fbi per il caso Russiagate, il tutto mentre in contemporanea il Pentagono rendeva nota la nuova politica di deterrenza, basata su armi nucleari meno potenti ma più facilmente utilizzabili. Proprio contro la Russia, di fatto. Insomma, la politica della cortina fumogena potrebbe tornare in auge. E poi, oggi è il giorno del SuperBowl, la finale del campionato di football americano, l’evento sportivo che paralizza un intero Paese: il quale avrà gli occhi puntati su Minneapolis per la sfida fra New England Patriots e Philadelphia Eagles e non certamente sul mercato azionario che, dopo un rally da mille e una notte, si è preso una pausa per rifiatare.
Perché questa sarà la versione che tutti dovranno accettare, perché esattamente come accade nella Cina comunista che strizza l’occhio furbescamente al libero mercato solo per ciò che le conviene, le cattive notizie – e la realtà di particolar modo – devono evitare di turbare il buon andamento del mondo. Piaccia o meno. A fare sensazione, poi, è stato il crollo totale di Bitcoin, sceso venerdì a -60% dai suoi massimi: tutti in fuga dalla grande bolla della criptovaluta? Oppure l’ennesima manovra speculativa, l’ennesima mossa strategica seguita al boato di una qualsivoglia istituzione che minacci una maggior regolamentazione della moneta virtuale? Insomma, buy the dip, compriamo ora che è bassa? Vedremo lunedì, ma anche in questo caso la puzza di manovra non certo orchestrata e basata su logiche di pura domanda e offerta è forte, molto forte.
Attenti, poi, perché come vi dico da tempo, Bitcoin ha tutti i crismi del capro espiatorio come accelerante dell’incendio doloso della prossima crisi: nata dal nulla e dalla fantasia “eversiva” di due nerd, cosa ci sarebbe di meglio per scagionare Wall Street da ogni responsabilità? Per quanto mi riguarda, la domanda da porsi è una sola: quale assets si trasformerà nel mitologico “canarino nella miniera” e suonerà la vera sveglia? Quasi certamente, non le equities. Troppo alte le valutazioni, troppo distorti i multipli di utili per azione in settori sensibili come l’energetico o il tech, un crash sarebbe davvero ingestibile a livello di reazione sulla catena di controparte. Diverso, invece, un bel bagno di sangue nell’obbligazionario ad alto rendimento, visto che i grandi players da settimane ormai stanno vendendo a più non posso e un primo, deciso shock potrebbe rivelarsi paradossalmente salutare per la smart money, la quale beneficerebbe paradossalmente di una rapida rotazione sull’azionario e ha già avuto il tempo di “coprirsi”, cosa che la dumb money – ovvero il parco buoi, più prosaicamente parlando – non potrà, né saprà fare. La solita storia, insomma, ancora e ancora.
Il problema sostanziale, però, è altro: come gestire una bolla di leverage globale, distribuita su tutte le asset classes, che fa letteralmente impallidire il livello di indebitamento del 2007? Perché qualcuno deve farsi male, obbligatoriamente. Non esistono vie di fuga totalmente indolore, soprattutto ora che la Fed non ha armi immediate da mettere in campo – un intervento di emergenza avrebbe infatti un effetto psicologico devastante, disintegrando in un secondo mesi di retorica legati appunto agli effetti quasi taumaturgici della Trumpnomics – e che la Cina non potrebbe più muoversi in punta di piedi: in caso di necessità di intervento, sarà alluvionale, non certo la solita iniezione di denaro overnight o l’ennesimo allargamento dei cordoni della borsa, leggi un ammorbidimento dei requisiti di capitale per le banche che liberi nel sistema qualche centinaia di miliardi per tamponare default e caricare a pallettoni le swap lines dell’impuls creditizio globale.
Ci penserà la Bce a salvare il mondo? E come, riattivando la stamperia a 80 miliardi al mese e levando ogni vincolo sugli acquisti? Non certo ora, visto che a Francoforte sono in molti a parlare di un Draghi silenzioso e attendista per un’unica ragione: l’eccessivo apprezzamento dell’euro sul dollaro rappresenta infatti la scusa perfetta – in vista della primavera – proprio per proseguire oltre i limiti (e oltre le misure attuali di intervento) con il Qe, stante però la necessità di uno shock serio: non basta un black Friday come quello vissuto da Wall Street per giustificare un cambio di rotta simile. E, questa volta, non c’entra la Bundesbank, anche in questo caso è l’effetto psicologico a contare. Oltre a quello del potenziale contagio, rischio quest’ultimo non a caso evidenziato proprio venerdì da Deutsche Bank con il suo studio e il grafico che ho postato.
E attenzione, perché lunedì scorso anche l’inserto economico di Repubblica, Affari e Finanza, ha lanciato l’allarme rispetto alla fine del programma di acquisto obbligazionario corporate con un articolo dall’eloquente titolo Bond, timori di instabilità ed effetto Bce, corsa alle emissioni delle grandi corporate, facendo notare come le aziende italiane siano in prima fila nello sfruttamento del finanziamento a costo zero e non bancario dell’Eurotower (meglio tardi che mai), la conferma di quanto vi dicevo prima riguardo l’obbligazionario ad alto rendimento come detonatore della crisi potenziale è offerta da questo grafico postato proprio venerdì da una vecchia volpe dei mercati come Jeff Gundlach e denominato con la dizione poco entusiasmante di “Chart of death”, il grafico della morte. Una certezza? No, ormai questi mercati di certezze non ne offrono più. Non possono offrirle, visto il tasso di manipolazione che alberga in loro e ne definisce contorni e movimenti: sicuramente, prima o poi le forze residuali del mercato torneranno a farsi vive, è inevitabile perché ogni distorsione porta con sé un paradigma di schumpeteriana giustizia, creando i presupposti per un ritorno più o meno generale e più o meno traumatico alla realtà. Ma occorre tempo, perché se al tavolo da gioco c’è qualcuno che bara sistematicamente con il beneplacito del proprietario del casinò, vincere la partita appare opera improba.
Siamo alla vigilia di uno scossone da price discovery? Qualche grande istituzione ha sbagliato i calcoli sul VaR, ovvero sui prezzi di iscrizione a bilancio degli assets, in questo caravanserraglio che ha eliminato – ormai da anni – il concetto stesso di fair value? Una cosa è certa: quanto accaduto non è stato derubricato a incidente di percorso da chi opera, anzi. La data di venerdì è di quelle che in molti hanno cerchiato sul calendario con la matita rossa, tanto per non dimenticare quale sia la realtà in ci stiamo vivendo: per quanto Donald Trump millanti e la grancassa mediatica, anche quella di rito obamiano rigido, ceda alla tentazione interessata di offrire qualche merito al presidente e alle sue politiche per il rally dell’ultimo anno, nessuno – in cuor suo – navigherebbe davvero a vista in questo mare, solo falsamente calmo.
Siamo nuovamente alla logica dell’iceberg, quella colpita venerdì è stata la prima punta che apra la falla iniziale del Titanic senza però scatenare il panico generalizzato ma solo nei navigatori più scafati? E se il generale Mattis, capo del Pentagono con delega all’opzione militare senza necessitare del nulla osta del presidente, sempre venerdì a minacciato un’azione militare in Siria come ritorsione all’attacco chimico dello scorso aprile, pur ammettendo di non avere prove al riguardo e Nouriel Roubini, Mr. Doom, ha definito Bitcoin «la più grande bolla della storia dell’umanità», a far pensare sono state le parole di qualcuno che certe logiche le conosce molto bene. Henry Kissinger, ex storico segretario di Stato e ultimo gran commis Usa, ha infatti dichiarato che «quella di un attacco preventivo contro la Nord Corea è una possibilità altamente probabile». Ennesimo tentativo di alzare la tensione, tanto per sviare l’attenzione dai mercati o reale necessità di intervenire, questa volta con il beneplacito di una Cina che tutto può accettare in questo momento, tranne che una nuova crisi finanziaria sistemica che non solo metta a repentaglio il programma di riforme del governo, ma la tenuta stessa dell’enorme schema Ponzi del Dragone?
Forse, saranno preoccupazioni eccessive le mie. Forse, veramente, dopo tanta corsa, il cavallo di Wall Street ha dovuto giocoforza tirare il fiato. Ma qui non si è rallentata la corsa, ci si è schiantati per terra come quei ballerini dell’America profonda che affrontavano maratone massacranti per vincere il premio in denaro nelle feste dei cowboys. Solitamente, non sono storie che finiscono bene.