Vediamo di sgombrare subito il campo da possibili equivoci: quanto accaduto a Macerata sabato mattina non ha alcun tipo di giustificazione, nemmeno la più lontana e paradossale. Per quanto si possa ritenere inaccettabili le ingiustizie del mondo, armarsi di una Glock e sparacchiare a caso la propria rabbia contro chi si ritiene l’incarnazione di ogni problema è follia e i folli non hanno bandiera, punto. È inaccettabile. E proprio per questo occorrerebbe misurare le parole, soprattutto nel corso di una campagna elettorale che di tutto ha bisogno salvo che di toni che si alzino ulteriormente e in maniera deteriore. Da un lato – leggi Matteo Salvini – ma anche dall’altro, basti sentire le parole irresponsabili e pregne di ideologica prosopopea di Pietro Grasso e – al di fuori della mera contrapposizione elettorale – di Roberto Saviano.
Detto questo, una cosa mi ha stupito: che nessuno abbia colto il raggelante parallelo che le ore di ordinaria follia di Luca Traini, quasi un emulo nostrano di Michael Douglas nell’omonimo film, ci hanno regalato: di fronte a noi, potenzialmente, abbiamo un altro caso Jo Cox. O, se preferite, Tommy Mair, ovvero il killer della deputata laburista, uccisa a colpi di pistola vicino al suo seggio elettorale alla vigilia del referendum sul Brexit. Di lui si disse che nell’atto di compiere l’omicidio, gridò “Britain first” anche se alcuni testimoni oculari smentirono il fatto e venne ricostruito un passato di disturbi mentali amore per le armi e tendenze nazionaliste e di estrema destra. Poco conta, quel fatto cadde come una scure sul dibattito relativo all’addio della Gran Bretagna all’Ue e alle sue più recondite e meno presentabili ragioni: nonostante l’understatement britannico, da sinistra la criminalizzazione di un’intera fascia di popolazione fu abbastanza netta, ancorché dissimulata, mentre dall’altra si gridò al complotto, mettendo in evidenza i molti lati oscuri della vicenda. Dinamica e timing in testa.
Ma fu altro a lasciare tutti silenziosamente – certe cose si pensano ma non si dicono nella buona società – attoniti: quel gesto criminale doveva essere la pietra tombale per la campagna del Brexit e un assist al Remain. Avvenne il contrario, quel gesto non influì minimamente sul voto: i britannici si recarono alle urne a votare e scelsero comunque l’addio, ancorché con una maggioranza risicata e con la famosa divergenza fra metropoli e campagna e tra giovani cosmopoliti e vecchi poco educati. Temo, sentendo certe parole contro il segretario leghista, che si rischi il medesimo effetto. E non per simpatia per Salvini e per la correttezza della sua tesi sull’immigrazione e le sue conseguenze, ribadita anche a fatto avvenuto, ma perché ignorare determinate tensioni in nome della facile accusa di razzismo lascia aperta un’enorme fala comunicativa fra palazzo e Paese: se è vero che la risposta al degrado e all’insicurezza non è il Far West o la giustizia fai da te, fingere che tutti sia lindo e ordinato come fra gli scranni di Montecitorio, è folle, prima che miope.
Ci sono poi domande da farsi. Parecchie, come d’altronde nel caso Tommy Mair: ad esempio, se – come ci dicono tutti i media – Luca Traini era noto come testa calda e avviato verso un destino di sociopatia, partendo da un retroterra familiare difficile, perché aveva un’arma semi-automtica regolarmente detenuta per il possesso nel suo domicilio? Certo, non poteva girarci indisturbato ma chi lo controllava? Aveva un agente incollato alle calcagna per verificare che quel divieto non fosse infranto? Impossibile, lo sappiamo tutti. Sarò forse un dietrologo senza redenzione, ma mi interessa paradossalmente molto più avere una risposta a questo che il fatto che lo stesso Traini fosse stato candidato per la Lega Nord alle amministrative di Corridonia dello scorso anno, dove non fu in grado di ottenere la preferenza nemmeno di un amico, ammesso che ne avesse e ne abbia. Fu allontanato anche dalla palestra dove allenava i suoi muscoli da macho-giustiziere, come vogliono descrivercelo ora, proprio per le sue idee estremiste e razziste: ma, in un contesto non certo da megalopoli alienante come quello di Macerata, nessuno si è posto il problema di levare dalle mani di un personaggio simile, noto a molti, una Glock. Che non sapeva usare, visti i risultati non certo da cecchino dell’Ira, ma questo non deve confortare: prima di parlare di reazione dura e severa dello Stato, lo stesso Stato ci dia delle risposte. Non per volontà di sminuire il gesto, ma proprio per la ragione contraria. Ovvero, chiudere fuori dalla porta ogni eventuale dubbio o sospetto.
Perché quando il ministro Minniti ci parla di grande attenzione che d’ora in poi verrà posta sul tema della comunicazione violenta sui social, dopo aver annunciato pochi giorni fa la creazione di una task-force contro l’estremismo on-line gestita direttamente dalla Polizia di Stato, a qualcuno potrebbe sorgere il dubbio che si colga la palla al balzo per un salto in avanti, una discesa ulteriore del gradino della volontà censoria a quattro settimane da un voto politico che non più tardi di due settimane fa lo stesso premier, Paolo Gentiloni, definì il più importante della storia recente del Paese, ma, soprattutto, un voto per l’Europa e non per la sola Italia. Il problema è che la gente che voterà, sempre meno visti i recenti precedenti, sconta i suoi disagi e le sue pene quotidiane – disoccupazione, degrado, insicurezza sociale e occupazionale, crisi economica tutt’altro che alle spalle – in Italia, non a Bruxelles o Francoforte: certo, è legittimo vedere nell’Ue la risposta madre a quelle criticità, ma è altrettanto sacrosanto chiedere riposte concentrate su Roma e che da Roma provengano. E non sarà la caccia su Facebook dei vari Luca Traini a darle, visto che poco si ottiene se si banna qualcuno da Internet, ma li si lascia in dotazione una pistola semi-automatica con cui tentare una strage a un uomo dalla personalità palesemente borderline.
Ricordiamoci poi un altro paio di cose, parlando dell’accaduto provinciale della tadiosa (nel senso gucciniano del termine) Macerata e dell’Europa come faro maestro e di riferimento per il futuro del nostro Paese: non più tardi della scorsa settimana, su Repubblica comparse in prima pagina come titolo di apertura un articolo nel quale si ventilava – proprio in sede Ue – un patto segreto fra Jean-Claude Juncker e Silvio Berlusconi: nulla osta a un governo di centrodestra da parte delle istituzioni comunitarie ma senza Lega al suo interno. E il Cavaliere, stando al quotidiano diretto da Mario Calabresi, avrebbe acconsentito. Smentite? Solo quella di Matteo Salvini, ricorrendo all’ormai ritrita formula della notizia bufala, della fake news: nessuno, né a Bruxelles, né tantomeno ad Arcore si è stracciato particolarmente le vesti per smentire. Ora, si possono ritenere le idee di Matteo Salvini il male assoluto, ma annullare per regio decreto Ue il voto di un 14% dell’elettorato di cui la Lega pare accreditata, è atto di sommo disprezzo non solo del principio cardine del suffragio universale, ma della democrazia stessa, con tutti i suoi limiti churchilliani. Esattamente la molla che ha spinto le stanche gambe di rozzi anziani della provincia britannica a trascinarsi, magari con l’ausilio del bastone, fino al seggio per dire addio a Bruxelles, alla faccia degli istruiti giovanotti di Londra o Manchester con in mano il loro bicchierone di caffè Starbucks e nello zaino un multiculturale e progressista Mac.
E, che questo piaccia o meno, esattamente come possono piacere più o meno idee e toni di Matteo Salvini, trattasi della stessa democrazia e tenuta delle sue istituzioni che Marco Minniti e Paolo Gentiloni vogliono difendere dai Luca Traini di cui, purtroppo, il mondo è pieno. Perché, scomodando Totò, non serva aver fatto il militare a Cuneo per sapere che matti e criminali esistono, ci sono sempre stati, ci sono e ci saranno. Un colpo di pistola diede la stura a una guerra mondiale, figuriamoci se tocca stupirci per un paranoico di provincia. Noto a tutti per le sue idee, tanto da aver un dente di lupo – simbolo delle SS naziste – tatuato sulla faccia, non esattamente un simbolo in voga nell’alto società. In compenso, detentore con timbro a secco e firma delle istituzioni di un’arma quasi da guerra. E a inquietare non è nemmeno tanto il fatto della contrapposizione viscerale e velenosa, quanto il fatto che in un clima simile a dividerci dal voto ci siano ancora quattro settimane. Durante le quali, come ci ha ricordato lunedì scorso l’inserto economico di Repubblica, molte grandi aziende italiane faranno i salti mortali per emettere più bond possibili da far comprare alla Bce in modalità ancora onnivora di Qe per ottenere finanziamenti a costo zero, prima di dover tornare alle normalità delle regole di mercato, in primis quello a tagliola interbancario dei prestiti a costo reale o gonfiato dallo spread.
E non parliamo di cose di poco conto, perché proprio Affari e Finanza sottolineava in un grafico molto esplicativo come le aziende italiane non solo fossero leader nella Top 50 di quelle europee che battono cassa attraverso lo schema Ponzi dell’acquisto di corporate bond dell’Eurotower, ma che le stesse rappresentassero il 14,12% del totale di queste “magnifiche” cinquanta: parliamo di Telecom Italia, Intesa, Fiat Chrysler, Banco Bpm, Wind Tre, Tim, Igt, Saipem, Cnh e Unipol Banca. Una bella parte di gotha economico-industriale del Paese che per finanziarsi ricorre allo schema a tempo sempre più formalmente determinato del finanziamento a pioggia e senza criteri valutativi di rating reali garantito da Mario Draghi.
Cosa c’entra questo con Luca Traini, il razzismo, la campagna elettorale e il dibattito in corso in queste ore? Nulla. Ed è questo il problema, che di un fatto di brutale, fondante, sistemica e strutturale importanza per la tenuta economica del Paese – importante al pari di quella democratica posta a rischio da Traini – nessuno sappia nulla – tranne i lettori del Sussidiario, consci della situazione e dei suoi pericoli da mesi -, mentre sappiamo che Luca Traini è stato candidato misconosciuto della Lega a Corridonia, ombelico del mondo ideologizzato dove non ha preso nemmeno una preferenza (nemmeno il suo autovoto). E questo, di per sé, dovrebbe dare un senso al contesto elettorale, alla corsa verso il nuovo governo, alla contrapposizione fra partiti e coalizioni, oltre che fra giornali che operano da grancassa della politica di parte, più che da organi di informazione.
Attenti al pericolo più grande: quello che potrebbe suggerire a qualcuno, per disinnescare la mina Salvini (e, magari, per esaudire i desiderata di Jean-Claude Juncker e del Ppe), una strada che spalanca la porta a una ribalta di potenziali Tommy Mair, facendoli diventare ago della bilancia e paradigma del Paese. Quanto accaduto è criminale e va punito severamente, a colpi di anni di galera, ma non è certo Luca Traini la risposta semplice, ideologica e arendtianamente banale ai guai – reali – del Paese, cui la politica tenta per l’ennesimo volta di sfuggire. A colpi di allarmi e sciacallaggio. Da entrambe le parti. E la lezione del Brexit è lì a ricordarcelo.