La pratica di dare un bel nome a una brutta azione è vecchia come il mondo. E lo è anche l’ipocrisia di indorare una pillola amara con una definizione dolce. Quando la Volpe di Esopo realizzò di non avere la forza per raggiungere, con un salto, l’uva bionda che pendeva dai tralci sopra di lei, sentenziò, per consolarsi: “Non è ancora matura”. La regola della bugia consolatoria o speculatrice è valsa anche in campo economico, e in modo particolare sul tema spinoso delle privatizzazioni.



Così è successo in tutta Europa negli anni Novanta. I governi hanno privatizzato le loro industrie statali per fare cassa o per compiacere le banche internazionali dalle quali dipendevano i loro mercati finanziari. E hanno definito tutto questo “modernizzazione”, “liberalizzazione” e “moralizzazione”. Modernizzazione, come se la proprietà pubblica debba per forza coincidere con gestioni industriali passatiste; liberalizzazione, come se la concorrenza fosse figlia della natura privatistica di una proprietà e non dei suoi comportamenti di mercato; “moralizzazione”, come se i privati non defraudassero spesso e volentieri le loro stesse aziende o i loro soci o i loro clienti. Mah…



I due Paesi leader sono Stati la Gran Bretagna e, ancor più perché costretta, l’Italia. Ora la Gran Bretagna si sta pentendo. Presto se ne pentirà anche l’Italia, anzi ha già iniziato.Partiamo dalla Gran Bretagna, perché di questo revisionismo economico si è occupata nei giorni scorsi la stampa internazionale. La miccia è stata accesa dal capo del Labour Party Jeremy Corbyn che ha inserito nel suo programma il ritorno allo Stato della proprietà e della gestione dei principali servizi pubblici – dalle poste alle ferrovie.

Ha potuto farlo con credibilità non solo per ovvie ragioni ideologiche, ma anche e soprattutto perché le privatizzazioni hanno fatto nascere una casta di imprenditori che sono più che altro “prenditori”, tanto da aver suscitato le critiche perfino del Financial Times, organo di stampa della City, voce istituzionale delle ragioni del liberismo e del business. Le privatizzazioni e le liberalizzazioni avrebbero dovuto rappresentare, in Gran Bretagna come ovunque, la panacea contro i mali dell’inefficienza dei monopoli pubblici. Nei fatti, si è visto che ai monopoli pubblici si sono semplicemente sostituiti degli oligopoli privati che non hanno fatto scendere le tariffe a carico dei consumatori e non hanno riqualificato le infrastrutture perché non hanno investito.



I casi di disfunzione citati dallo stesso Financial Times sono in effetti impressionanti. È arrivata ad esempio sull’orlo del fallimento la Carillion, secondo impresa edile del Paese, che pure aveva collezionato numerosi appalti e concessioni pubbliche: l’alta velocità ferroviaria Londra-Birmingham-Manchester, la manutenzione di moltissime prigioni, sale operatorie e scuole. Ma nonostante fosse privata, è saltata o quasi. Una delle aziende private più attive nella gestione degli acquedotti si è limitata a migliorare la produttività del servizio di appena l’1% all’anno, mentre si è pagata più dividendi di quanti fossero gli utili, cioè ha spolpato l’azienda.

Che senso ha avuto privatizzare così? Corbyn ha parlato di “dogma delle privatizzazioni” e di “racket delle esternalizzazioni”, promettendo di smantellare entrambi. Non solo smentendo la politica varata a suo tempo dalla Thatcher, che era Tory, ma anche quella dei suoi predecessori Labour Tony Blair prima e Gordon Brown poi. E ha annunciato che se il Labour vincerà le elezioni rinazionalizzerà i servizi postali, ferroviari, idrici e l’energia. Perché un sondaggio dell’Istituto Legatum – non certo orientato a sinistra – ha fatto sapere che gli inglesi propendono oggi appunto per una rinazionalizzazione di energia e acqua.

E in Italia? In Italia non abbiamo neanche gli occhi per piangere. Dopo aver sviluppato privatizzazioni dal valore complessivo di 180 mila miliardi di vecchie lire, non abbiamo più null’altro da vendere se non un patrimonio immobiliare pubblico ancora virtualmente preziosissimo ma che però nessuno vuol comprare sia perché versa in situazioni generalmente miserevoli, sia, ancor di più, perché la burocrazia italiana impedisce di fare quelle cose ovvie che rendono appetibili le privatizzazioni immobiliari, come ad esempio acquistare una vecchia caserma dismessa e farne un supermercato o trasformare un ministero in un albergo.

Anche volendo, non potremmo rinazionalizzare un fico secco, perché lo Stato non ha soldi per comprare più nulla. Ha venduto le autostrade e i vari acquirenti l’hanno comprata con una leva finanziaria che ha attinto al patrimonio delle società acquisite, cioè non hanno speso soldi loro, ma soldi nostri; ha venduto la telefonia e l’ha vista rimbalzare da una proprietà straniera all’altra, fino ad arrivare – oggi – all’ipotesi di comprarsi almeno la rete telefonica fissa per dare una mano al gruppo ancora piegato dai debiti contratti dagli scalatori per un’altra Opa a leva. Hanno venduto gli aeroporti e anche in quei casi gli acquirenti hanno investito meno dei soldi che hanno trovato in cassa. E hanno venduto la maggioranza dell’Enel, pur conservandone il controllo, costringendo l’azienda ad una metamorfosi che è miracolosamente riuscita, ma non ha aggiunto valore ai suoi utenti e hanno tentato di liberalizzare l’energia senza che l’operazione generasse alcun vantaggio sui prezzi. 

Una sfilza di errori condivisi dalla destra e dalla sinistra. Forse entrambe gratificate dagli operatori privati che di quegli errori si sono giovati.

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