Il crollo dei mercati degli ultimi giorni segnala, a prescindere dalle evoluzioni immediate, che lo scenario finanziario a cui siamo stati abituati negli ultimi anni potrebbe essere prossimo alla conclusione. È stato uno scenario di tassi bassissimi e assenza di volatilità che ha “risolto” o messo in secondo piano molte criticità: il deficit commerciale americano, l’esplosione dei debiti pubblici, il crollo della domanda interna in Europa e l’esplosione delle differenze tra centro e periferia tra gli altri. Qualsiasi aumento della volatilità sui mercati e qualsiasi accenno di recessione o solo rallentamento dell’economia globale si inserisce, in Europa, in una fase di profondo ripensamento delle sue strutture e dei suoi equilibri interni. La divaricazione tra centro e periferia e la cessione di sovranità verso i Paesi forti non avviene gradualmente, ma con strappi improvvisi e violenti.



Qualsiasi cosa si pensi di euro o Europa l’attuale struttura dei rapporti interni agisce in senso centrifugo e aumenta le differenze. La ragione è semplicissima e di buon senso. Se in una fase di crisi un Paese può fare politiche anticicliche, investimenti pubblici ed espansione del debito, e viene sostenuto dalle istituzioni europee mentre un Paese “indebitato” no, alla fine della crisi le differenze non potranno che essere aumentate. Da un punto di vista politico i Paesi “deboli” si trovano nella condizione di dover “mendicare” aiuti dai Paesi forti che, a loro volta, si fanno pagare con cessione di sovranità politica o sostanziale. È utile ricordare che una valuta unica, ridottissimi margini di manovra fiscali e regole uguali per tutti impediscono qualsiasi flessibilità che non sia l’emigrazione. Questa analisi, fuori dall’Italia, non separa populisti o no che invece si separano sulle soluzioni a una situazione considerata di fatto.



La storia europea degli ultimi vent’anni si spiega in questa cornice. Le discussioni europee sulle soluzioni in Italia o non arrivano oppure arrivano mediate da un europeismo ideologico. Oggi Francia e Germania discutono di una maggiore integrazione, fiscale e regolamentare, che nei fatti disegna un’Europa A, il cuore franco tedesco, e un’Europa B fatta da chi rimane fuori. È sempre utile ricordare che Schaeuble per tutto il 2017 ha avanzato l’ipotesi di un’uscita dall’euro della Grecia. Un’ipotesi che è chiaramente sul tavolo e che si pone non per un’ideologia, ma per una situazione impossibile da risolvere se non con una conversione miracolosa di Francia e Germania. È chiaro a tutti che una struttura che, oggettivamente, agisce in senso centrifugo come quella attuale ha solo due conclusioni possibili: o un cambiamento di politica dei Paesi forti che rinunciano alla loro sovranità sull’Europa per una sovranità europea oppure la spaccatura dell’euro con Paesi, “uscenti”, devastati e, più o meno, colonizzati.



L’Italia è e sarà sempre percepita come un concorrente del centro franco-tedesco. È concorrente dei tedeschi per via della sua manifattura e dei francesi per le sue ambizioni politiche, come si è visto chiaramente con la questione libica. Se l’Italia non è più parte del processo decisionale perché ha perso la guerra civile europea combattuta con euro e austerity, allora è dall’altra parte di una bilancia su cui sono seduti Francia e Germania. Nessuno biasima nessuno, ma è chiaro che, motivi filantropici o religiosi a parte, di solito si lavora per mettere in difficoltà i concorrenti.

Per l’Italia sta arrivando velocemente il momento in cui dovrà decidere cosa vuole fare. In realtà cosa voglia fare l’Italia si può già capire: si è lasciata comperare dalla Francia senza sollevare un dito. Oggi Telecom Italia è coordinata e diretta da Vivendi. La lista di imprese strategiche passate sotto controllo francese è sterminata, è un fenomeno che non ha alcun paragone di sorta tra i Paesi del primo mondo e che non sarebbe stato permesso nemmeno nei Paesi del secondo mondo. Alla lista che conosciamo (il risparmio, Pioneer ieri e Generali domani, le banche, le telecomunicazioni, il lusso, l’energia, l’alimentare, ecc.) si potrebbe aggiungere persino la difesa con Leonardo mentre tra inchieste inconcepibili in qualsiasi altro Paese sembra sia finita nel mirino persino Eni. È davvero difficile non pensare che un tale trasferimento di sovranità sostanziale, mai visto e impossibile in qualunque altro Paese, sia accaduto per caso e solo per opportunismi singoli nel totale disinteresse del governo. In Francia o in Spagna, valga per tutti l’accoglienza riservata ad Atlantia nell’Opa su Abertis, le resistenze sarebbero state sicuramente molto più forti.

Si può leggere in sostanza una scelta strategica per cui l’Italia si “vende” alla Francia per rimanere nell’Europa A, quella di Francia e Germania. La Francia, che, come l’Italia, non può reggere la competizione tedesca, oggi per tanti motivi tratta con la Germania alla pari mentre l’Italia è fuori dal tavolo. La Germania sceglie un accordo con la Francia come alternativa a una rottura totale dell’euro da cui uscirebbe completamente isolata. L’europeismo italiano è solo una bella storia che maschera la vera opzione. La scelta, meditata e precisa, di rimanere nell’euro come colonia della Francia. Una scelta da perdenti che ha alcune controindicazioni.

La prima è che in questo modo si salveranno sicuramente i grandi capitali italiani che rimarranno in euro a discapito però di milioni di posti di lavoro in meno, ma si può sempre emigrare, di un Paese che non potrà mai più accarezzare il sogno di poter investire e di potere fare una politica estera che tuteli i propri interessi. Le colonie, come noto, devono avere la crescita castrata. Il secondo è che vendersi a questa Europa “A” con il parlamento finto ma il Bundestag e l’Assemblée nationale verissimi, in questo modo per assicurarsi la tranquillità e ingraziarsi i padroni in realtà non ci tutela. Il secondo in cui non serviamo più è il secondo in cui veniamo scaricati mentre rimangono appiccicati a chi ha vinto le industrie, il risparmio e i posti di lavoro. Questa però è una storia già vista. È l’unico destino della Grecia con il 25% di disoccupazione, destinata a uscire dall’euro solo dopo aver perso tutto e solo dopo che le cose di valore, porti e aeroporti su cui viaggiano merci e turisti globali, sono finite in Germania. Eppure l’Italia ha dimostrato per un cinquantennio grandi potenzialità economiche, con l’economia mista pubblico-privata distrutta dall’euro e dalle privatizzazioni, e politiche come punto di riferimento per un’area, il Mediterraneo, che, a ragione, ci ha sempre percepito come partner e non come padrone.

Poi ci dicono che l’Europa è l’unica opzione e che se ci facciamo qualche domanda siamo “populisti”. Ci facciamo le stesse domande, in realtà, che si fanno Merkel e Macron per cui l’euro e l’Europa sono e saranno sempre un mezzo e non il fine.