Avete presente il film Margin call, dedicato al caso Lehman Brothers, pur non citando mai il gigante fallito? Bene, lunedì quel film è diventato realtà a Wall Street, dove gli indici sono letteralmente crollati oltre il 4%, rinviando sinistri echi proprio dell’ultima crisi finanziaria. Cos’è accaduto? Di fatto, come invitava a fare Jeremy Irons nel film, parlando con i suoi dirigenti durante la drammatica riunione notturna, ci si è purgati dopo un’indigestione pantagruelica. E lo si è fatto per primi. Niente di che, solo l’accenno di una terapia che sarà lunga, drastica e invasiva, ma la conferma di quanto vi dicevo lunedì: qualche grossa istituzione finanziaria aveva clamorosamente sottostimato i rischi legati al Var, ovvero al prezzo di iscrizione e detenzione a bilancio di assets solo formalmente innocui e ha dovuto scaricare a qualsiasi prezzo e a qualsiasi acquirente, onde evitare di rovinare a tutti la festa dell’economia globale che scoppia di salute, ricalcando proprio il destino di Lehman.
Ma attenzione, questo rappresenta soltanto una parte del problema: quella catena di controparte a rischio rottura era il sentiero scosceso che poteva tramutare una slavina in valanga stile Black Monday del 1987, ma la questione resta legata alla quantità di neve che si è lasciata accumulare sul tetto di casa, non all’inclinazione del terreno, ovvero del mercato e del rischio sui tassi, variabile che tutti conoscono fin da principio.
Quella di fronte a noi è una crisi ancora una volta strutturale e sistemica, un qualcosa che si può tamponare solo con mosse emergenziali come quelle poste in essere lunedì: salvare il salvabile, vendendo, come si svuotava con i secchi la sentina del Titanic dalla prima acqua che entrava dalle falle. Ma così, si può solo guadagnare tempo: sono trasfusioni, sono flebo per ristabilire un minimo di idratazione. La malattia resta. E a confermarcelo sono più fattori, tre per l’esattezza al momento, primo dei quali quello che vedete nei grafici qui sotto: la velocità devastante con cui, come vi dicevo, è tornata prepotentemente in campo la volatilità di mercato, il Vix, un qualcosa di magnitudo enorme che infatti ha colto tutti di sorpresa. Il secondo grafico, infatti, ci mostra come giovedì scorso si registrò un afflusso record di scommesse proprio sull’Etf che guadagna quando la volatilità di mercato crolla: mai scommessa fu più errata, visto l’epilogo di venerdì a Wall Street.
Insomma, i traders cominciano a non capire più nulla. Ed è normale, perché il loro lavoro era quello di operare su un mercato regolato da norme storicamente fisse e accettate: la price discovery, il fair value, il mark-to-market. Ovvero, se vendi immondizia, non può spacciarla per oro, se un asset vale 5, non puoi sperare di piazzarlo a 500 e farla franca. Almeno, non per sempre e non come strategia. Il ritorno del Vix è stato, di fatto, il ritorno di quei concetti cardine: un qualcosa che, paradossalmente, andrebbe festeggiato. Ma come si fa a festeggiare un -4,6% del Dow Jones, seguito ieri mattina da un quasi -5% generalizzato sulle piazze asiatiche, senza passare per il protagonista di V per Vendetta? Insomma, così come la narrativa mainstream vorrebbe quasi tranquillizzarci, dicendoci come un mantra che se le Borse crollano significa che l’economia va troppo bene, ecco che anche il ritorno da Attila della volatilità dovrebbe rappresentare, di fatto, una buona notizia, dopo anni di distorsione criminale del sistema. Ma non è così. Almeno, non in questa fase di transizione. Ma, come vi dicevo, sono tre i fattori a conferma della gravità della situazione.
Il secondo è tutto europeo e indirettamente è stato confermato lunedì sera da Mario Draghi nel suo discorso all’Europarlamento, in un’aula che non possiamo certamente definire gremita, simbolo plastico dell’incapacità di una classe dirigente per la gran parte indegna anche a livello continentale e incapace di cogliere la drammaticità di quanto sta accadendo sui mercati (in compenso, si sprecano le dichiarazioni sui fatti di Macerata). E cos’ha detto Mario Draghi? Ha, come al solito, confermato la forza superiore alle previsioni della ripresa europea e il target inflazionistico attorno al 2%, ma anche messo fermamente in guardia dai rischi connessi alla riforma fiscale voluta da Donald Trump, primo dei quali una corsa al ribasso nella concorrenza sulle tasse fra Paesi e macro-aree.
Per la Bce, la mossa di Trump «rischia di intensificare la competizione fiscale a livello globale, comportando una possibile erosione delle basi imponibili nei Paesi dell’Ue». L’Eurozona, stando agli esperti dell’Eurotower citati dal governatore, «sarà influenzata dai cambiamenti nel panorama fiscale internazionale, le cui conseguenze sono altamente incerte e complesse». Inoltre, la riforma inciderà sulle strategie di pianificazione fiscale delle multinazionali poiché «le minori imposte sulle società statunitensi aumentano l’attrattiva fiscale degli Stati Uniti rispetto ad altri Paesi». Insomma, un allarme in piena regola. Ma volendo leggere sottotraccia e cogliere segnali che per ora devono rimanere ancora nascosti, ciò che deve far riflettere dell’intervento di Mario Draghi all’Europarlamento è questo: «I bitcoin e le valute virtuali sono al momento in uno spazio non regolato, e dovrebbero essere visti come asset molto rischiosi, soggetti ad alta volatilità e speculazione… Attualmente. la vigilanza bancaria unica sta studiando come identificare i rischi prudenziali che le valute virtuali pongono alle banche».
Direte voi, normale dopo i saliscendi di queste ultime settimane e l’assoluto bagno di sangue di lunedì, quando la criptovaluta è scesa sotto quota 6mila dollari. Il problema è mettere in fila gli addendi e riuscire a compiere un’addizione dai termini meno immediati di quella che sembra regalarci la realtà contingente: il numero uno della Bce, infatti, ha detto – ponendoli come cardine del suo discorso in una sede ufficiale – che i rischi maggiori per un’economia in splendida salute come quella europea sono Donald Trump con la sua politica fiscale e il Bitcoin. Cosa vi dico da settimane, mentre nel caso del presidente Usa, addirittura da mesi? Servono capri espiatori per la nuova crisi che non mettano un’altra volta sul banco degli imputati le elites, ovvero la politica e Wall Street, visto che questa volta non ne uscirebbero praticamente indenni come nel 2008. Ed ecco che oltre al presidente Usa, messo alla Casa Bianca proprio per dar vita al piano suicida di detonazione controllata della bolla senza dare nell’occhio (quando si ritiene qualcuno uno stupido, si tende a non attribuirgli doppi fini o capacità strategiche di dissimulazione), ora c’è il babao delle criptovalute a garantire un elemento di instabilità finanziaria che si potrà potenzialmente spacciare proprio come detonatore e accelerante dell’incendio che sta bruciando gli indici mondiali dalle fondamenta.
D’altronde, Draghi ha ragione di essere preoccupato, al netto dell’ottimismo che indossa come un abito da cerimonia ogni qualvolta parla in pubblico: occorre una scusa per allungare e ripotenziare il Qe, non foss’altro per quanto vi dicevo l’altro giorno relativamente al programma di acquisto obbligazionario corporate che, se bloccato, potrebbe scatenare magari non una catena di default aziendali in piena regola, ma certamente una pressione al ribasso sul lato del finanziamento nell’eurozona capace di sradicare alle basi qualsiasi gemito di ripresa o tenuta di sistema. La carta dell’euro sopravvalutato sul dollaro, in tal senso, è troppo rischiosa nella sua emergenzialità, visto che quanto sta accadendo a Wall Street potrebbe sì portare a nuovi minimi per il biglietto verde sulla moneta unica, ma anche a mosse – ancorché solo a livello di annuncio – da parte della Fed che trovino la Bce con la guardia scoperta e con una Bundesbank che potrebbe vedere nella potenziale crisi di liquidità dell’eurozona una paradossale via d’uscita da eccessi di mutualizzazione, proprio fiscale in prima battuta. E, di fatto, anche politica in seno all’Unione.
In tal senso, attenzione alle manovre sulla Grande Coalizione di governo in atto proprio in queste ore in Germania, visto che le trattative fra Cdu e Spd sono entrate ieri nel vivo, in attesa del via libera formale e statutario della base del Partito socialdemocratico tedesco al nuovo accordo. Si parla di ultimi nodi da sciogliere ma anche la trattativa fra Cdu e Liberali intavolata subito dopo il voto di fine settembre scorso sembrava alle battute conclusive poche ore prima della rottura che ha portato alla più lunga crisi e vacanza di governo della recente storia tedesca: cosa accadrebbe nell’eurozona e in questo contesto di terremoto finanziario globale, se per caso dovesse saltare l’accordo fra Merkel e Schulz e si dovesse tornare alle urne, con lo spettro di nuova ingovernabilità e potenziale exploit di Alternative fur Deutschland nel Paese locomotiva dell’Unione?
Il tutto, senza dimenticare l’altra, enorme fonte di instabilità per il Continente e la sua tenuta politico-economico-istituzionale: ovvero, il voto italiano del 4 marzo e l’inqualificabile (almeno fin ora, ma nutro poche speranze per le prossime tre settimane) campagna elettorale in atto. Mario Draghi, insomma, ha clamorosamente mostrato il tallone d’Achille dell’eurozona, mettendo le mani avanti e puntando il dito contro i capri espiatori di turno? Penso di sì, sfruttando proprio l’effetto sorpresa dato dalla sua credibilità acclarata e generalmente riconosciuta: insomma, da lui nessuno ce lo si aspetta. Quindi, zero effetto panico, ma chiaro messaggio a nuora perché suocera intenda.
Ed eccoci al terzo e ultimo fattore, a mio modo di vedere il più rischioso di tutti e il meno affrontato in assoluto. Ce lo spiega perfettamente questo grafico, ma l’argomento merita qualche riga in più di descrizione e analisi approfondita. Qual è il vero problema, infatti, quello che davvero fa tremare le vene ai polsi di Wall Street e delle altre piazze mondiali e che risiede intrinsecamente nelle scelte compiute dalle Banche centrali in modalità di Quantitative easing globale pluriennale? L’economia reale, la carne viva divenuta malata e purulenta negli ultimi anni proprio a causa della sua finanziarizzazione generale. Nella fattispecie, il rischio di un ciclo di defaut corporate proprio a partire da quegli Usa che vengono dipinti come il paradiso terrestre dell’intrapresa e che saranno destinati – così dice la narrativa – a vedere ulteriormente migliorate le loro metriche proprio dalla riforma fiscale di Donald Trump e del suo taglio draconiano delle corporate taxes, le aliquote per le aziende.
Nonostante un recente aumento dei profitti aziendali e delle metriche finanziarie, infatti, l’alto leverage delle aziende a livello globale pone un enorme rischio di credito. Usando il campione generalmente accettato delle agenzie di rating di 13mila entità corporates, Standard&Poor’s stima che la proporzione di corporations ad alto livello di esposizione alla leva – ovvero, all’indebitamento con una ratio debito/ricavi che eccede 5x – oggi è al 37% contro il 32% del 2007, prima della crisi finanziaria globale. Di più. Tra il 2011 e il 2017, il debito corporate non finanziario globale è salito di 15 punti percentuali, al 96% del Pil: insomma, in media le corporations sono al massimo del ciclo di credito. Quindi, un livello minore dei prezzi degli assets determinato da rovesci sul fronte finanziario e reflazioni della liquidità dopo anni di Qe rappresentano i rischi maggiori.
Qual è, quindi, il timore? Quello in base al quale rimuovendo quello che possiamo definire il “punching bowl” del denaro a pioggia delle Banche centrali si arrivi all’attivazione del prossimo ciclo di default, visto che, come appena detto, i livelli di debito delle aziende sono molto alti e hanno fatto accrescere la sensibilità dei creditori verso costi di finanziamento elevati. Inoltre, proprio lo stimolo monetario senza precedenti del periodo post-crisi ha creato un pericoloso gap fra i tassi di default, i quali rimangono artificialmente molto bassi grazie alle Banche centrali, e il numero di aziende con alto indebitamento reale, il quale è appunto cresciuto proprio grazie all’azzardo morale delle liquidità a pioggia e al costo del denaro ultra-basso per periodi di tempo senza precedenti. Questo gap ha di fatto mascherato la discrepanza fra leverage e default in maniera talmente elevata e parossistica che il recente aumento degli earnings aziendali e delle metriche finanziarie – specialmente grazie proprio all’effetto psicologico della riforma fiscale Usa – non potrebbe comunque essere in grado di operare un efficace offset dei rischi di credito in atto, troppo significativi.
Di fatto, uno stigma. Perché quando il debito è a questo livello di ripidità e il tasso di default aziendale – di fatto, metro di misura darwiniano che divide le aziende sane da quelle disfunzionali in un mondo normale – così basso, qualcuno deve cedere qualcosa. E pagare un prezzo. Ed ecco che un materiale repricing sul mercato obbligazionario relativo o una normalizzazione più veloce del previsto dei tassi di interesse del money market potrebbe impattare sui profili di credito corporate. Il problema qual è, però? Cosa sta spiazzando in maniera così palese e generalizzata il mercato, rispetto a queste dinamiche? Capire dove il repricing colpirà di preciso, per alzare la guardia e difendersi. Cosa dobbiamo temere? Che questa metrica prosegua fino a più estreme conseguenze: significherebbe infatti che, potenzialmente, oltre un terzo delle13mila aziende tracciate da Standard&Poor’s potrebbero andare incontro a un futuro dal nome decisamente cupo: default.
Altro che ripresa globale sostenuta e sincronizzata, il criminale indebitamento indotto da avidità corporate e azzardo morale monetaristico delle Banche centrali è pronto a reclamare il conto. Tutti avvisati, nel caso nei prossimi giorni la logica del buy the dip faccia tornare il sereno, se non addirittura l’euforia sugli indici mondiali: possiamo solo rimandare il redde rationem. Non evitarlo.