Dall’Istat sono arrivati gli indicatori demografici relativi al 2017 che descrivono una situazione che sarebbe riduttivo definire preoccupante. La popolazione residente è diminuita di 100.000 unità rispetto all’anno precedente e i decessi sono cresciuti del 5,1%, a quota 647.000. Quel che è più allarmante è che le nascite sono state 464.000, il 2% in meno rispetto al 2016, nuovo minimo storico. E anche il saldo naturale (-183.000) fa segnare un nuovo primato negativo. Il numero medio di figli per donna (1,34) risulta invariato rispetto all’anno precedente, come l’età media al parto (31,8 anni). «Speriamo che questi dati risveglino dal sonno decisionale la classe politica, perché ormai siamo dinanzi a una diminuzione stabile, prolungata e storicamente senza precedenti della popolazione e di tutte le grandezze demografiche che sono rilevanti per lo sviluppo», ci dice Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano.
Professore, quali sono i dati che la colpiscono di più?
Sono due in particolare. Il primo è il calo del numero di nati. Speriamo di essere arrivati a toccare il fondo del barile. Anche perché la generazione dei baby boomers sta invecchiando e appare quindi già impossibile che la natalità cresca in modo tale da compensare l’aumento della mortalità che naturalmente ci sarà. Il minimo storico del saldo naturale è quindi destinato ad ampliarsi, stiamo andando verso un periodo molto particolare, in cui la diminuzione della popolazione diventerà un dato inevitabile.
E qual è il secondo dato che l’ha colpita?
Il tasso di fecondità è molto basso, siamo di fronte a una sorta di neo-malthusianesimo ormai. Le condizioni dei giovani sono state talmente frammentate, divenendo incerte, da modificare in modo sostanziale i piani di vita delle persone. Affidarsi a una ripresa dell’attuale generazione è indispensabile, ma non è più sufficiente a colmare un divario che è diventato ormai una voragine: abbiamo un vuoto demografico impressionante.
Secondo lei questa situazione è frutto di scelte politiche o di un clima culturale?
Che ci sia di mezzo anche la cultura non lo metto in dubbio, ma che questi dati siano legati alla disoccupazione giovanile, alla frammentarietà del lavoro, all’incertezza reddituale, all’impossibilità di mettere su casa senza rovinarsi o fare mutui “secolari”, è un fatto. A questa situazione già grave bisogna aggiungere il fatto che ci sono molti giovani che stanno lasciando l’Italia, sostituiti in parte da immigrati giovani. E questo non promette molto bene per il Paese.
Perché?
Perché significa che il potenziale di sviluppo umano del Paese continua a diminuire e a essere sia nella componente interna, che in quella immigrata, non adeguato a modelli di sviluppo che sempre più a livello mondiale si vanno qualificando per essere orientati a un innalzamento delle competenze. Insomma, il capitale umano dell’Italia non cresce.
Dunque questo invecchiamento della popolazione ha conseguenze economiche che non riguardano soltanto i conti pubblici (aumento delle spese per previdenza e welfare), ma anche le sue prospettive di crescita…
In Italia gli investimenti sono al palo da dieci anni. Lo stock di capitale fisico, quello che può dare un genuino aumento della crescita, in questo momento non aumenta. Da cosa può essere trainato? Dai mercati esteri o, soprattutto e tradizionalmente, dal mercato interno. E il nostro ormai è un mercato che quando va bene utilizza i risparmi del passato. Tutto questo può rappresentare una boccata d’ossigeno per la generazione di disoccupati che c’è adesso, ma tra un po’ si esaurirà. Il fatto che il nostro Paese abbia un Pil con il segno più è un bene, ma il fatto che restiamo fanalino di coda la dice lunga. Appena il resto del mondo rallenta, noi precipitiamo.
Prima ha auspicato un risveglio della politica di fronte a questi dati demografici. Quale intervento sarebbe prioritario?
Occorre una politica che abbia come obiettivo centrale la famiglia. Da auspicio di Paese civile sta diventando ormai una questione di sopravvivenza. Non è che manchino gli esempi fuori dall’Italia cui rifarsi. Ho sempre parlato molto della Francia, ma guardi cosa sta facendo ora la Germania – che è messa male come l’Italia – coi contratti di lavoro: si dà la possibilità di ridurre l’orario settimanale a 28 ore. È chiaro che questo aiuta la conciliazione lavoro-famiglia.
Quindi occorre un mix di interventi…
Non può bastare qualcosa come il fattore famiglia. Se domani mattina venisse approvato, non cambierebbe niente ormai. La situazione è troppo deteriorata. Occorre un progetto di sistema per la famiglia. Ci sono i problemi delle spese fisse (quelle per l’abitazione, le persone che mangiano meno o male), c’è la questione del sostegno di famigliari che non sono più autosufficienti. C’è, insomma, un problema di sistema. Bisogna organizzare una serie articolata di interventi, che perlopiù vadano a impattare sulla fascia più giovane (20-40 anni). Senza di essi siamo destinati ad andare a rimorchio della crescita mondiale quando c’è o ad affondare quando c’è una fase negativa.
(Lorenzo Torrisi)