Dammi tre parole, diceva una canzonetta di qualche anno fa: nel caso, si trattava di sole, cuore e amore. Nel nostro, di Esteri, Finanze e Lavoro. Ovvero, i tre ministeri che i socialdemocratici tedeschi della Spd hanno ottenuto per offrire il loro sostegno alla Grosse Koalition che garantirà il quarto mandato ad Angela Merkel. E non basta, perché ai cugini bavaresi della Cdu, quella Csu sempre più dura sul tema sicurezza e immigrazione, andrà il ministero dell’Interno. Insomma, possiamo parlare di un “manuale Cencellen”. Ma, ironia a parte, quanto accaduto l’altro giorno a Berlino ha un valore enorme. E, temo, di senso contrario a quell’addio all’austerity che tutti i giornali italiani hanno frettolosamente sottolineato.
Dando per scontato l’ok della base socialdemocrarica all’accordo, avendo ottenuto il massimo a livello di dicasteri, la stagione che si aprirà sarà quella dell’addio di Angela Merkel e, quasi certamente, di un unicum per la politica teutonica: un ricorso anticipato alle urne, vista la rivolta che già monta all’interno della Cdu per l’eccessivo sbilanciamento a sinistra in tema economico che il nuovo assetto di governo imporrebbe. Fonti di stampa, addirittura, indicherebbero come titolare degli Esteri lo stesso Martin Schulz, per questo pronto a lasciare la guida del partito – destinato in questo modo a virare quasi certamente ancora più a sinistra – e a gestire direttamente l’asse franco-tedesco con la presidenza Macron per quello che possiamo fin da ora definire “il nuovo corso europeo”.
La Merkel, mai come oggi politicamente debole e isolata, rischia di ritrovarsi stretta in un ruolo di comprimaria che non le è congeniale. E, soprattutto, che le alienerebbe anche le ultime simpatie interne al partito, aprendo la porta a un addio alla politica di bassissimo profilo, quando invece fino a sei mesi fa avremmo preconizzato un pensionamento con tutti gli onori e, soprattutto, con profilo da grande statista. Troppo, anche per Angela la pragmatica, la quale ha ceduto più all’emergenza del vuoto di potere che alla convinzione politica reale. Ma, tornando al ricasco europeo della vicenda, davvero sarà la fine dell’austerity? Davvero l’addio di Wolfgang Schaeuble alle Finanze e l’approdo a quel dicastero di un uomo Spd va festeggiato come una svolta positiva tra i membri del cosiddetto Club Med, Italia in testa?
Scusatel ma io sono quasi certo di no. Anzi, dal punto di vista dei conti pubblici e del loro rigore, sarà peggio, non fosse altro per evitare plateali strappi con la Cdu a livello interno e mantenere così un margine di flessibilità che, paradossalmente, pagheremo noi. Non tanto per un’impostazione economica o ideologica ma tutta politica: Parigi mena le danze, Berlino accompagnerà con grande devozione e ossequio sotto la guida socialdemocratica e Roma attenderà il suo turno seduta, come certe ragazze troppo timide per farsi avanti. E destinate all’oblio, quando non al palese isolamento.
Una prima riprova l’abbiamo avuta proprio mercoledì, giorno del d-Day per il nuovo governo tedesco. Paolo Gentiloni era infatti a Berlino per un discorso in un’università e per un incontro bilaterale a seguire con Angela Merkel: la quale, senza troppo affanno, né riguardo, giunta a ridosso del meeting, lo ha annullato. «Mi spiace ma non ho tempo di riceverti», sarebbe stata la franca formula utilizzata dalla Cancelliera verso il titolare, ancora per tre settimane, di Palazzo Chigi. Uno schiaffo istituzionale con pochi precedenti. Anzi, forse nessuno. Certo, la giornata per la Merkel era di quelle campali e di enorme importanza, ma, in fin dei conti, l’esecutivo tedesco aveva già avuto una gestazione di quattro mesi, un’oretta in più di attesa non avrebbe ucciso nessuno. Tanto più che quanto emerso a livello di ripartizione dei dicasteri veniva comunicato con la formula delle indiscrezioni di stampa, non si è tenuta alcuna conferenza stampa ufficiale e congiunta fra Merkel e Schulz tale da giustificare il forfait all’incontro con il nostro premier.
Prepariamoci, perché questo sarà l’atteggiamento tedesco nei nostri confronti d’ora in poi. Anzi, franco-tedesco. Perché al netto dell’endorsement elettorale e della stima a parole, Emmanuel Macron nel suo recente viaggio a Roma ha trattato Gentiloni da fido scudiero, non da alleato paritetico. E lo ha detto a chiare lettere, ribadendo la primazia del rapporto bilaterale con Berlino e lasciando per Roma solo le briciole dei complimenti per il patrimonio architettonico. Mancava l’entusiasmo per pizza e mandolino e il quadro stereotipato del nostro peso in Europa sarebbe stato perfetto.
Su queste pagine, leggo di inviti a Gentiloni affinché colga l’occasione offerta dalla nuova Grosse Koalition per cambiare in meglio l’Europa, proprio attraverso una più stretta collaborazione con Angela Merkel, anche al fine di depotenziare un po’ la rinnovata grandeur francese e il suo istinto di primazia arrogante verso non solo Roma, ma l’idea stessa di Europa mediterranea. E come, di grazia? Con uno scendiletto dei desiderata Usa in Europa come Martin Schulz agli Esteri e l’uomo all’Avana del Deep State in Europa all’Eliseo? In tal senso, basti ripensare alla linea tenuta dal capo dell’Spd in ambito europeo negli ultimi anni, quando ha guidato l’Europarlamento, su materie come Siria, Ucraina e relative sanzioni contro Mosca, politica energetica, allargamento Nato a Est, Balcani e presunte ingerenze russe: praticamente, pareva nato in Wisconsin e non nel Nord Reno-Westfalia. Il tutto, poi, con la Merkel al minimo storico di supporto politico e appeal diplomatico ma, nonostante questo, capace di liquidare Gentiloni come si fa con un colf cui si danno gli otto giorni, lasciandolo a Berlino a fare anticamera, prima di congedarlo senza nemmeno riceverlo di persona? Sono questi i presupposti della nuova alleanza Roma-Berlino per un’Europa migliore? Auguroni a tutti.
Senza contare che, dati alla mano, piaccia o meno, esiste alle porte una variabile cui non si può non dare il peso che merita: ovvero, il fatto che ci siano buone probabilità che il 4 marzo prossimo sia il centrodestra fattivamente e non virtualmente guidato da Silvio Berlusconi a risultare vincente alle urne, lo stesso Cavaliere che sappiamo non avere certo un rapporto idilliaco con il “kapò” Schulz che guiderà la diplomazia teutonica. Vogliamo poi parlare della presenza della Lega nell’esecutivo, vista come fumo negli occhi dal burattinaio di Schulz, quel Jean-Claude Juncker che, stando a Repubblica, avrebbe sancito un patto proprio col Cavaliere per mantenete fuori Salvini e soci da un possibile esecutivo di centrodestra post-elettorale?
Certo, sia il leader azzurro che Matteo Renzi hanno lanciato un chiaro segnale di governo delle larghe intese già alle porte e questo proprio negando pubblicamente questa possibilità ed evocando con largo anticipo un ritorno alle urne in caso di assenza dei numeri necessari a governare il 5 marzo (e come si torna alle urne, con una legge elettorale che ha garantito l’instabilità e l’ingovernabilità? No, serve farne un’altra ma per questo occorre un governo che la faccia e abbia i numeri, la mitica quota 316. Et voilà, il “governo del Presidente” evocato con largo anticipo da Massimo D’Alema, di fatto le larghe intese benedette dal Quirinale), ma resta il fatto che, chiunque sbarchi a Palazzo Chigi, non avrà affatto un alleato in Berlino, bensì soltanto un tramite, un ambasciatore nei confronti di Parigi, la quale con Roma non parlerà nemmeno direttamente, ma solo per interposta persona, come di fatto sta già facendo.
E come mai si è giunti a questo? Solo per lo scarso risultato ottenuto da Cdu e Spd alle elezioni dello scorso settembre, il cui risultato ha di fatto reso obbligatoria e inevitabile una nuova Grosse Koalition? Ovviamente, in parte sì, ma anche perché la Merkel, vista ormai esaurita la sua spinta propulsiva e di supporto nel Paese, ha agito veramente da statista, utilizzando l’ultima carta che aveva in mano per ottenere il massimo possibile per il suo Paese: blindare la Bce post-Draghi, la vera chiave di volta, soprattutto in caso di possibile ridiscussione degli assetti stessi di un’eurozona già nei fatti a due velocità. E due monete, stante i dati macro. Non è forse, nei fatti, un euro diverso dal nostro quello che finirà nelle tasche dei metalmeccanici tedeschi che potranno scegliere la settimana lavorativa di 28 ore e che hanno beneficiato di un aumento salariale, da nuovo contratto, del 4,3%, il doppio abbondante dell’inflazione? Lo è, senza dover scomodare il Sacro Romano Impero per prefigurare improbabili arrampicate sugli specchi di una nuova Europa sociale e mutualistica possibile.
La Francia, poi, vendendo l’anima al diavolo d’Oltreoceano, si è garantita sforamenti allegri dei conti pubblici per i prossimi decenni, il tutto ottenendo anche la nomina a maestrina del rigore che richiama gli altri ai loro obblighi: e Roma? Fa anticamera, attende di essere ricevuta e poi torna a casa come un’amante delusa che si vede, per l’ennesima volta, scavalcata dal ritorno a casa anticipato della moglie dal mare. La Merkel, in tutto questo, ha giocato per Jens Weidmann, per la Bundesbank, per i tedeschi e, soprattutto, per l’euro formato marco – almeno fino a quando esisterà nella forma attuale e favorevole a Berlino, vedi il surplus che ora qualche illuso vedrebbe destinato alla dilapidazione in spesa pubblica grazie alla Spd – che tante soddisfazioni ha regalato in questi anni di manipolazione monetaria e dumping strisciante.
Mi sbaglio? Probabile, ma mentre a Berlino si chiudevano i colloqui e Gentiloni attendeva in sala d’aspetto come dal dentista, ecco cosa ha dichiarato il membro del board Bce e capo della Banca centrale austriaca, Ewald Nowotny, al quotidiano Wiener Zeitung, rispondendo alla domanda se Donald Trump rappresenti con la sua politica un fattore di incertezza per il mondo politico e finanziario: «Sì e ciò che sorprende sono due cose. Da un lato, il Tesoro Usa ha volontariamente deprezzato il dollaro e intende tenerlo basso e, dall’altro, non c’è stato nessuno nelle vicinanze di Trump, dove troviamo un gran numero di persone intelligenti, che abbia avuto un’influenza positiva sul Presidente e sulle sue politiche». Tradotto, la Bce per la prima volta ha accusato direttamente, ancorché con un elegante giro di parole, gli Usa di manipolazione valutaria. Dobbiamo prepararci a un avvelenamento dei pozzi nei rapporti? O solo a una Bce che sul finire della gestione Draghi farà di tutto pur di garantirsi qualche mese di Qe in più, visto quale sarà la politica monetaria prossima ventura a guida tedesca e con il beneplacito di Parigi e Washington?
Proprio sicuri che ci sia da gioire per la nuova Grosse Koalition tedesca? Proprio sicuri che stia per finire la politica dell’austerity per le “cicale” del sud Europa? Convinti voi…