Trump la decisione l’ha presa da solo, confessa il segretario di Stato Rex Tillerson, tirando un sospiro di sollievo dopo aver temuto per mesi che il Presidente volesse a ogni costo dare una lezione al dittatore. Ma ancora una volta The Donald ha spiazzato le regole della politica con un tweet. Per ora, in assenza di una preparazione diplomatica adeguata, l’unico contatto concreto tra i due leader sembra essere Dennis Rodman, roccioso campione di basket amico di Kim, suo grande tifoso.
Anche sul fronte dei dazi il Presidente ha dato la sensazione di muoversi da solo. Contro la svolta protezionistica si sono mosse all’interno le lobby più potenti, dai giganti dell’industria manifatturiera ai Big di Wall Street, i primi sostenitori di Gary Cohn, il consigliere economico dimessosi per protesta da Washington. Le proteste hanno sortito l’effetto di moderare, per ora, la svolta sui dazi: le misure sull’alluminio e sull’acciaio non si applicheranno a Canada e Messico (purché accettino la revisione del Nafta), così come ai Paesi che si dimostreranno “veri amici” degli Usa, sia in materia di commercio che di cooperazione nella difesa. Ma questa formula sembra fatta apposta per giustificare misure contro la Germania, grande bersaglio (dopo la Cina, ovviamente) dell’ira del Presidente: Berlino è stata più volte accusata da Trump di non contribuire in maniera adeguata alla Nato impegnando, come previsto dai trattati, il 2% del Prodotto interno lordo in spese per la difesa. La risposta tedesca non si è fatta attendere: non accettiamo lezioni da nessuno. Assai più bellicosa Pechino, che ha già fatto sapere di disporre di un arsenale di ritorsioni efficace, anzi devastante.
Insomma, l’emergenza coreana è stata per ora sostituita da un’altra sindrome, meno inquietante e drammatica, ma che rischia di colpire in maniera sensibile gli interessi di tutti, Italia compresa. Più per gli aspetti simbolici del provvedimento che non per i suoi effetti immediati, a giudicare dalle reazioni prudenti delle Borse. Ma comunque inquietante, perché introduce un nuovo elemento di incertezza. Anche perché non è chiaro l’obiettivo dell’azione del Presidente.
Tutto potrebbe risolversi, dicono le colombe, in una serie di azioni dal valore dimostrativo, volto a supportare il proprio indice di gradimento presso l’elettorato in vista delle elezioni di metà mandato che, in assenza di successi politici di qui a novembre, dovrebbero premiare i democratici. In questo caso gli effetti non andranno oltre qualche modesta fiammata di volatilità. Viceversa, se veramente il Presidente intende diventare aggressivo, e intraprendere azioni più vaste e incisive, gli effetti risulteranno tanto più negativi sulla crescita Usa e globale quanto più scateneranno rappresaglie da parte di altri Paesi, creando i presupposti per una vera e propria guerra commerciale.
Al di là dei problemi tattici, però, esistono problemi reali che vanno assai al di là di acciaio e alluminio. Lo sbilancio commerciale Usa ha toccato a gennaio la cifra di 58,8 miliardi di dollari, ai massimi da dieci anni. Intanto l’export cinese sale: +36% a febbraio. Per non parlare della Germania, la prima potenza commerciale del pianeta, grazie anche al contributo dell’euro, assai meno forte (vista la situazione dell’Europa mediterranea) di quel che sarebbe una moneta solo tedesca. Grazie a questa manipolazione effettiva del valore del cambio la Germania, il Paese che doveva essere imbrigliato dalla moneta unica (obiettivo a suo tempo di François Mitterrand), ha così saputo sfruttare a proprio vantaggio il presunto handicap. Il risultato è che la Germania ha superato l’anno scorso un livello intollerabile di surplus delle partite correnti pari al 9% del Pil e si illude di cavarsela riducendolo al 7% entro l’anno prossimo attraverso la rivalutazione dell’euro e gli aumenti salariali che ne stanno riducendo la competitività. Ma anche al 7%, ben oltre la soglia di surplus prevista dal trattato di Bruxelles, la Germania si attirerà riprovazione e sanzioni quanto meno dall’America. “Col 7% di surplus – commenta Alessandro Fugnoli di Kairos – un Paese che voglia evitare di passare per molto maleducato deve rivalutare oppure accettare di produrre (non solo assemblare) nei paesi in cui esporta oppure ancora rassegnarsi a subire dei dazi: anche il più paziente dei liberoscambisti non può continuare a vivere circondato da mercantilisti”.
Il diktat di Trump, dunque, serve a riportare d’attualità l’anomalia dell’eccessivo surplus commerciale tedesco, una delle cause degli squilibri dell’area euro. Né sono prive di fondamento le proteste contro l’export cinese, altra potenza paladina del libero scambio. Pechino non solo finanzia le perdite delle aziende di Stato che così possono esportare sottocosto (acciaio, pannelli solari e altro), ma è riuscita a imporre nei fatti la regola per cui le società tecnologiche che vogliono operare sul suo mercato devono cedere know-how.
Le ragioni, come sempre, non stanno tutte da una parte sola. Perciò conviene raggiungere al più presto un accordo. Soprattutto all’Italia, grande potenza esportatrice, ma vaso di coccio in un convoglio di corazzate. Già abbiamo pagato un prezzo molto alto per l’embargo alla Russia (vedi industria alimentare, abbigliamento e mobili in testa). Speriamo di non dover fare il bis per tutelare le quote di mercato di Bmw e Mercedes a Manhattan.