I vincitori delle elezioni, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, sanno bene che i negoziati per formare un nuovo governo saranno lunghi, faticosi e, forse, addirittura infruttuosi, dunque rischiano di finire ingoiati nelle sabbie mobili di un sistema politico che non ha consentito di esprimere una chiara maggioranza. Ecco perché vogliono dare subito un segnale che le cose stanno cambiando. Il leader della Lega intende mettere sul tavolo la riduzione delle imposte, il capo dei pentastellati il reddito di cittadinanza. Entrambi sostengono che il Def, il Documento di economia e finanza, che andrà varato entro un mese, sarà l’occasione per lanciare urbi et orbi il loro messaggio. In realtà, è dubbio che lo possano fare e le loro affermazioni ancora una volta sembrano più da campagna elettorale permanente.
Il Def, infatti, non solo viene preparato da Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia ancora in carica, ma contiene solo le cifre chiave e le proiezioni annue in base alla situazione attuale, a legislazione costante, perché nessuno può sapere oggi chi governerà e come verrà impostata in autunno la legge di bilancio che contiene gli obiettivi politici e le scelte legislative per realizzarli. Di qui a un mese è davvero difficile che uno dei due partiti esprima un ministro dell’Economia o che abbia il mandato di trattare con Padoan gli effetti di una futura finanziaria.
Di Maio sostiene di aver messo al lavoro la sua squadra economica. Ma il primo obiettivo del 2019 sarà trovare le risorse per evitare un aumento dell’Iva, delle accise, delle imposte dirette, cioè le clausole di salvaguardia imposte dall’Unione europea per i paesi che non rispettano la regola di riduzione del debito. Secondo le stime, si va da un minimo di 12 fino a ben oltre i 20 miliardi di euro; un amaro boccone da far digerire agli elettori speranzosi di pagare meno e ottenere di più dal prossimo governo.
Le scadenze europee sono molteplici e tutte ravvicinate. Di qui al Consiglio europeo di giugno c’è il completamento dell’Unione bancaria istituendo la garanzia depositi, poi il futuro Fondo monetario europeo, la riforma della convenzione di Dublino sugli immigrati, il bilancio pluriennale dopo il 2020 che porta con sé i fondi strutturali che il sud ha utilizzato solo per il 4%. Nei prossimi 18 mesi, il nuovo governo dovrà mercanteggiare le seguenti nomine: presidente della Bce dopo l’uscita di Mario Draghi nell’autunno 2019, due terzi del consiglio esecutivo della Bce (ci sarà un rappresentante italiano, e chi?); il presidente della Commissione Ue; il presidente del Consiglio europeo e, dulcis in fundo, il commissario italiano dopo l’uscita di Federica Mogherini. Che cosa potrà ottenere un Paese che non crede più nell’euro, rifiuta il bail-in, i parametri di Maastricht e la responsabilità di bilancio o che vuole respingere gli immigrati non solo verso l’Africa, ma verso il nord e l’est dell’Europa?
Né Di Maio, né Salvini sono in grado di colmare il fossato tra Roma e Bruxelles. La loro linea è sempre stata accusare l’austerità per i mali italiani, sfuggendo alla verifica dei fatti: dal 2013 al 2017 il saldo primario tra entrate e spese pubbliche corretto per gli effetti del ciclo economico in Spagna è passato dall’1,2% del Pil a meno 0,6%, quello dell’Italia dal 4,3% a sotto il 2%. La politica fiscale, dunque, è stata relativamente espansiva, ma nello stesso periodo la Spagna è cresciuta complessivamente dell’11,2%, l’Italia del 3,5%. Su queste basi sarà difficile trovare una solidarietà latina.
Intendiamoci, l’Ue ha molto di cui farsi perdonare. Non c’è dubbio che in questi anni abbia fatto da fuochista. È vero che ha concesso a Matteo Renzi flessibilità e anche adesso sembra disposta a dare all’Italia un margine di tempo visto che la Germania ha impiegato cinque mesi prima di formare una nuova grande coalizione. Tuttavia la situazione politica italiana è molto più simile a quella spagnola, il rischio di nuove elezioni (anch’esse inconcludenti se resta la staessa legge elettorale) è molto forte e Mario Draghi giovedì ha acceso i riflettori sui rischi di una prolungata instabilità politica.
Sarà davvero difficile, insomma, incidere subito sulla qualità della vita degli italiani, come promette Di Maio con evidente immaginazione. Il Def rischia di essere un appuntamento impossibile per saggiare la nuova politica economica. Anche perché dovrà tener conto della stretta, sia pur prudente e progressiva, della politica monetaria, già annunciata da Draghi.
Oggi come oggi non è possibile sapere quanto costerà il debito pubblico alla fine di quest’anno e soprattutto nel prossimo, perché non conosciamo di quanto saliranno i tassi d’interesse. Dal 2012 quando Draghi ha impresso la svolta espansiva, il servizio del debito è sceso da 83 a 60 miliardi di euro l’anno, una cifra che è comunque superiore a quanto si è speso per la scuola. In 20 anni sono stati pagati per interessi 1.700 miliardi di euro (cifra superiore all’intero prodotto lordo annuo); 760 miliardi negli ultimi dieci anni in cui i tassi sono scesi. Quasi un euro su venti di ricchezza annua prodotta serve a pagare i creditori italiani o esteri, riducendo le risorse pubbliche per consumi e investimenti.
Più il tempo passa, più crescono le aspettative e con esse le eventuali delusioni. Senza voler fare i falsi profeti, non è difficile prevedere i prossimi sviluppi: l’onda che prima ha spazzato gli equilibri della seconda repubblica è destinata a spostarsi dalla politica all’economia, alle imprese, alle banche, ai manager pubblici e privati, ai patron, verso quel 10 per cento che possiede metà della ricchezza. Non è un caso che tanti esponenti del mondo industriale e finanziario si siano lanciati sui carri dei vincitori (sul Carroccio soprattutto al nord e sul carro a 5 Stelle nel mezzogiorno). È chiaro che dovremo attenderci un innalzamento della conflittualità sociale, non governata dai sindacati confederali, i quali hanno da tempo perso forza e rappresentatività.
Tante, centinaia, sono già le vertenze industriali aperte al ministero dello Sviluppo e altre ne arriveranno. Non c’è più posto nei corridoi di palazzo Piacentini in Veneto per i “tavoli di crisi”. Ma le promesse talvolta mirabolanti distribuite a man bassa durante la campagna elettorale hanno suscitato attese che in qualche modo andranno soddisfatte, almeno in parte. Non si può cavalcare la frustrazione dei precari senza poi trovare nuovi posti di lavoro. Il M5s li vuole pagati da tutti i contribuenti, la Lega spera nella ricaduta del taglio fiscale, solo che lo Stato non ha mezzi sufficienti e le imprese possono espandersi (segnali chiari già ci sono nel nord est) solo quando avranno recuperato produttività, altrimenti la riduzione delle tasse si trasformerà in aumento dei risparmi, ma non in investimenti espansivi creatori di occupazione.
Se poi quest’anno passerà tra manovre politiche includenti rinviando tutto alla primavera 2019, magari con un election day insieme con le elezioni europee, lo tsunami dello scontento continuerà a crescere. I principali protagonisti, a cominciare da Di Maio e Salvini, forse sperano di prolungare la campagna elettorale fino al momento in cui potranno dare la spallata decisiva. L’incertezza economica e il malcontento sociale daranno loro il tempo di cui hanno bisogno?