Come volevasi dimostrare, l’Europa sa soltanto chiacchierare. D’altronde, quando nasci ontologicamente servo, difficilmente ti trasformi per magia in Spartaco. E Bruxelles quasi si crogiola, gode nel farsi prendere a schiaffoni dagli Stati Uniti ogni volta che questo è possibile. Ovvero, praticamente sempre. La questione – di per sé patetica, come vi dico fin dall’inizio – dei dazi Usa è esemplificativa di questo atteggiamento ontologico. Nel vertice trilaterale tenutosi sabato con Stati Uniti, appunto e Giappone, qual è stata infatti la posizione europea, dopo le minacce di ritorsioni a colpi di tariffe penalizzati su Harley Davidson e Jack Daniels? Pietire da Washington la stessa esenzione di cui godono Messico e Canada, «perché siamo alleati». Ovvero, l’America ci sputa in un occhio e noi, sprezzanti del pericolo, porgiamo anche l’altro, spalancandolo bene con le dita, come si fa quando si mette il collirio, per facilitare il compito. Meriteremmo anche i dazi sull’aria che respiriamo, per quanto siamo pusillanimi e appiattiti.



Ma c’è una speranza. Ovvero che, al netto dell’innegabile e settantennale servilismo verso Washington, come vi dico, esista un doppio fine nell’innescare una crisi senza farla scoppiare: se Fed e Bce hanno già messo le mani avanti, riguardo i rischi per inflazione e crescita che innescherebbe una guerra commerciale a livello globale, un motivo c’è. Occorre salvare il Qe europeo e riattivare quello Usa. In fretta. E, guarda guarda, cos’è saltato fuori proprio sabato, in contemporanea con il trilaterale della discordia: quanto riportato nel grafico, ovvero la prova provata che qualcosa bolle in pentola e sta già facendo gorgogliare l’acqua. Di colpo, le aspettative inflazionistiche del mercato stanno rilanciando segnali recessivi per la prima volta dal primo trimestre del 2008, con i breakevens a 5 e 30 anni in salita e in re-couple: tu guarda che combinazione, proprio quando serviva un segnale allarmista del genere per gettare acqua ghiacciata sulle attese di rialzi dei tassi.



Cosa significa? Semplice, il mercato vede sì un impulso inflattivo nel breve termine, ma di brevissima durata, visto che una recessione appare ormai alle porte a causa del tasso di crescita che non sale abbastanza da giustificare prezzi che aumentano a quel ritmo. Alla Fed hanno stappato. O, più facilmente, lavorato di fantasia per levarsi dagli impicci. Ma torniamo ai dazi. Cos’ha risposto Donald Trump alle invocazioni di pietà dell’Ue? «O levate le barriere sui prodotti Usa o tassiamo le automobili». Ancora la minaccia sul settore automotive: perché? Davvero può farci così male? No, il primo che si farà male – e tanto – al riguardo rischio di essere il comparto negli Usa, visto che venerdì è arrivata la conferma di come il settore sia il nuovo real estate 2.0, ovvero pronto a innescare una crisi in stile subprime nel vitale segmento di spesa del credito al consumo. Guardate questi grafici e ditemi se gli Usa sono in grado, dal punto di vista automobilistico, di minacciare davvero qualcuno?



E qui non siamo nel campo delle ipotesi o degli scenari, ragioniamo su dati relativi al quarto trimestre 2017 di Experian, leader del settore, appena pubblicati. Se il primo grafico ci dice chiaramente che la bolla espansiva del settore ha ormai esaurito la sua corsa – salvo nuovi, alluvionali incentivi federali, quindi politiche di auto di Stato emergenziale legate a un nuovo ciclo espansivo della moneta -, gli altri parlano la lingua di un comparto che per riuscire a vendere ha ricominciato a offrire prestiti sempre più alti e rischiosi a livelli di restituzione a cani e porci, a prescindere dal loro rating di credito personale. Sapete a quanto ammonta il prestito medio per l’acquisto di un veicolo nuovo negli Usa? Qualcosa come 31.099 dollari, nuovo record assoluto. Così come è record anche l’ammontare per comprare un veicolo usato, ben 19.589 dollari. Cifre che portano la rata mensile di rimborso per un’automobile nuova a 515 dollari e quella per l’usato a 371 dollari: cifre che, stante le vere dinamiche salariali, non sono gestibili. Soprattutto con i clienti subprime e deep subprime sempre più intenti a recitare la parte del leone nel grande circo dell’indebitamento di massa per consumare.

Gli americani stanno estendendo la durata dei loro prestiti per l’acquisto di un’auto nuova oltre i 69 mesi, mentre per l’usato siamo oltre i 64 mesi: altri due record polverizzati a livello trimestrale. Ma va tutto bene, l’economia Usa scoppia di salute e il comparto automotive è una bellezza, grazie ai sussidi federali lanciati da Obama e rinnovati da Trump! E perché gli acquirenti stanno tirando al massimo controvalore e durata dei loro prestiti? Perché alla faccia delle dinamiche salariali stagnanti, il costo per un nuovo veicolo è salito di oltre il 10% negli ultimi 5 anni: nel 2017, la media è arrivata al massimo storico di 35.176 dollari, contro i 33.532 del 2015 e i 31.773 del 2013, stando a dati ufficiali di Edmunds.com. Il perché di questo aumento è semplice: da un lato, le sempre più invasive campagne pubblicitarie sulle straordinarie offerte del credito al consumo hanno ingolosito il paco buoi, il quale ha cominciato a comprare veicoli più cari come i Suv, dall’altro l’aumento dei tassi di interessi.

Quelli reali, però. Quelli che la gente sconta davvero, in banca come dal concessionario come al supermercato. A febbraio, il tasso di interesse medio per il finanziamento di un veicolo nuovo era del 5,2%, in aumento dal 4,9% su base annua e del 4,4% di 5 anni fa: ma stando a dati Experian, è l’intero mercato del credito al consumo per i prestiti ad aver registrato aumenti dei tassi, passati dal 5,11% della fine del quarto trimestre per tutti i tipi di veicoli nuovi, dell’8,84% per l’usato e dell’11,48% per auto usate di concessionari indipendenti a incrementi su base annua rispettivamente di 37, 30 e 11 punti base.

E cosa sale insieme ai tassi? Le insolvenze sui prestiti, ovvero la percentuale di clienti incapaci di onorare le rate mensili. E se banche tradizioni e finanziarie stanno tagliando le linee di credito come atto di tutela a questa dinamica, chi invece è costretto a continuare per sperare di vendere qualcosa sono i cosiddetti “Oem captives”, ovvero i concessionari ufficiali dei grandi marchi, i quali per mantenere in vita lo schema Ponzi garantito da Fed e sussidi federali per anni, devono continuare a erogare prestiti a pioggia e accettare un aumento costante delle delinquencies. L’ultimo grafico, poi, ci dice quale potrebbe essere la proverbiale goccia che farà traboccare il vaso: l’ondata di rientri nei concessionari prevista per quest’anno di veicoli offerti in leasing, di fatto il colpo di grazia del mal-investment in un mercato già saturo e senza prospettive di nuove forme di eliminazione di scorte e sovra-produzione.

E pensate che le criticità legate a questa dinamica finiscano qui per il sistema statunitense? No, perché c’è un altro chiaro segnale di fragilità del vitale settore dei consumatori a medio e basso reddito: stando a dati della Fed riferiti al 31 dicembre scorso, il debito privato Usa non legato a mutui immobiliari ha toccato il record assoluto, qualcosa come 1 triliardo tondo tondo legato a carte di credito e revolving, cui vanno sommati 1,3 triliardi di dollari di prestiti per l’acquisto proprio di auto e 1,5 triliardi di prestiti scolastici. Insomma, non solo una nazione fondata sul debito, ma che sta letteralmente annegandoci. Ogni giorno di più in ossequio alla politica della Fed. Ma cosa c’è ulteriormente sotto la superficie di questo dato, lì dove albergano gli iceberg in grado di far naufragare e colare a picco anche i Titanic di turno?

Quanto vedete in questi altri grafici: Questo (PUBBLICA QUI I GRAFICI): mentre le grandi banche, dopo la crisi finanziaria, hanno continuato a speculare su derivati ed equities, ma a livello di credito al consumo hanno tirato i cordoni della borsa, concentrandosi quasi unicamente su clientela prime e super-prime, le piccole banche statunitensi – quelle che non rientrano nella classifica delle Top 100, per capirci – hanno continuato a garantire credito al consumo e fiducia e ora si ritrovano con un tasso di deterioramento sugli attivi del 7,9%, lo stesso toccato durante l’ultima crisi finanziaria! La quale, giova ricordarla, ha reclamato l’esistenza stessa di decine di piccoli istituti locali e territoriali, inglobati a prezzo di saldo dai grandi gruppi: i quali non attendevano altro, perché oltre ai prestiti da recuperare, quelle banche portano in dote clientela potenziale, filiali e sportelli, bancomat inclusi, negli angoli più sperduti d’America.

Insomma, sta per scoppiare una nuova crisi bancaria nel silenzio generale, ma questa volta non avrà carattere sistemico: servirà a far spaventare un po’ Wall Street, tanto per purgare gli indici troppo ipertrofici alla leva e ai multipli di utile per azione garantiti da anni di buybacks allegri, a offrire alla Fed una scusa per stoppare gli aumenti dei tassi, grazie anche alla grancassa emergenziale di media che scopriranno l’America profonda delle banche fallite e dei risparmiatori disperati (cui Washington tenderà la mano, ovviamente) e a preparare il banchetto finale per le grandi banche, pronte a inglobare l’universo creditizio americano a costo zero e a dar vita a un oligopolio assoluto dei grandi nomi di Wall Street su tutto: risparmio, credito, credito al consumo, assicurazioni e chi più ne ha, più ne metta.

Il tutto perché, alla faccia della narrativa ufficiale, i salari Usa non stanno affatto crescendo di pari passo con tassi reali e inflazione reale, soprattutto quella energetica e alimentare e nei mesi si è accumulato fra le famiglie statunitensi un debito che sta divenendo giorno dopo giorno sempre più difficile – se non impossibile – da gestire. E la dinamica è esattamente la stessa che anticipò la crisi del 2008, ovvero perdite che colpirono prima le piccole banche territoriali per poi espandersi a macchia d’olio ai grandi creditori. I quali, però, almeno questa lezione paiono averla imparata e hanno evitato come la peste eccessi di esposizione a clientela troppo a rischio: ora, però, esattamente come i vulture funds che si stanno comprando a prezzo di svendite gli Npl delle nostre banche su pressione europea, aprendo la porta a un futuro di fallimenti aziendali per le nostre Pmi, ecco che i grandi istituti si preparano a comprare in blocco sofferenze, delinquencies, liabilities, ma anche la parte sana e solvibile degli istituti di tutta l’America, la banca all’angolo di cui conosci il direttore e a cui davi del “tu”.

D’altronde, Mario Monti lo ha detto chiaramente: le grandi crisi aprono anche grandi possibilità. Per i grandi, però. E volete dirmi che a Bruxelles, fra centinaia di assistenti, analisti, portaborse, ricercatori dei centri studi, nessuno è a conoscenza di queste dinamiche, denunciate non più tardi di una settimana fa dal Wall Street Journal in prima pagina? Perché, allora, pietire l’esenzione dai dazi di Washington, invece che reagire? Perché c’è qualcosa sotto. Fidatevi. E temo che quel qualcosa abbia molto a che vedere con l’Italia e con quanto ci aspetta a breve, ovvero il combinato di addendum Bce sugli Npl, nuova gestione dei titoli di Stato in pancia alle banche e manovra correttiva e di sterilizzazione delle clausole di salvaguardia 2018, ovvero 15 miliardi da far saltare fuori da qui a fine anno solo per il costo di servizio dell’esistente.

Metteteci il fatto che a gestire certe cose si stanno prodigando, in queste ore, due menti come quelle di Salvini e Di Maio e capite da soli come quella dell’espatrio sia una prospettiva sempre meno peregrina e da scartare a priori. Nulla è come appare. Forse.