Fino all’ultimo respiro, la guerra fredda di Mario Draghi contro i tedeschi prosegue. Il Presidente della Bce – un Presidente dimezzato dalla prevalenza politica della Germania in Europa, ma forte abbastanza da esser riuscito a salvare l’euro – ha detto ieri che “sul fronte Unione bancaria c’è stata una riduzione significativa e sufficiente dei rischi, tale da consentire l’avvio dei negoziati per la prima fase dello schema comune di assicurazione sui depositi”. Ma immancabile si è subito sentito il “niet” dei tedeschi: “Abbiamo detto molto chiaramente negli ultimi quattro mesi che possiamo avere progressi soltanto quando ce ne saranno sul fronte della riduzione dei rischi”: ha replicato il ministro delle Finanze ad interim della Germania, Peter Altmaier, specificando: “Questo significa che potremo avanzare solo quando anche in quei Paesi con molti npl (non profit loan, le sofferenze bancarie) e molti problemi i rischi di una nuova crisi bancaria saranno significativamente ridotti”.
Cerchiamo di capire perché questo secco scambio di battute altro non è che una puntata in più di un contrasto che va avanti ormai da quando Draghi è stato nominato al vertice della Bce. Torniamo con la memoria all’anno terribile delle banche europee, il 2009. A catena, una dopo l’altra, una serie di grandi banche europee si piegarono in due sull’esplosione della bolla dei derivati finanziari, di cui erano zeppe. Quelle italiane, no: non che fossero più bravi i loro capi – non esageriamo: si è poi ampiamente dimostrato che così non era -, ma per una serie di ragioni locali, i nostri istituti non avevano frequentato molto quella robaccia, con l’eccezione di Unicredito che, per aver giocato con quel fuoco, c’ha poi rimesso una decina di miliardi di ricapitalizzazioni.
La prima a saltare fu la Northern Rock, britannica, poi una serie di altri istituti, dalla Abn Amro alla Ing. E in Germania? Una falcidie: nel settembre 2008 la Dresdner Bank in crisi passò alla Commerzbank, altra banca in forte difficoltà economica (un po’ come se Banca Etruria fosse stata davvero comprata dalla Popolare Vicentina), ma nel 2009 la Commerzbank fu salvata dal fondo salva-banche tedesco, il Soffin, con 48 miliardi di euro; la WestLb, Westdeutsche Landesbank, fallì di lì a poco, pur dopo aver potuto scaricare i crediti deteriorati in una bad bank garantita dai Lander, le Regioni tedesche; e nel 2015 la Deutsche Bank venne aiutata con la riscrittura di una norma europea che le permise di ridurre artificiosamente i buchi dei suoi conti. Esborso totale delle finanze tedesche: da un minimo di 238 miliardi di euro a un massimo di 600, a seconda dei criteri di calcolo.
Questa, in sostanza, è la Germania. Una groviera di pessima amministrazione bancaria. Ma tutto intorno, il sistema funziona. La burocrazia è efficiente; la finanza pubblica non sgarra; la macchina produttiva macina fatturati e utili e la bilancia commerciale genera un surplus superiore al 6% e come tale fuori legge rispetto agli stessi parametri di Maastricht che inchiodano sotto il 3% il rapporto deficit/Pil degli Stati membri. Nel frattempo, lavorando di lobby all’interno del Comitato di Basilea, i tedeschi sono riusciti a dettare regole cucite su misura dei loro buchi e contro i nostri. Basilea 3, la selva di norme che oggi vincolano l’attività di tutte le banche europee, non “pesa” severamente l’esposizione degli istituti nelle pericolosissime immobilizzazioni finanziarie in derivati mentre sovrastima il rischio derivante dai crediti incagliati. E proibisce, oggi, come illeciti “aiuti di Stato”, gli eventuali aumenti di capitale che uno Stato membro decidesse di sottoscrivere per salvare una sua banca.
Questo è l’europeismo della Germania. Che si perpetua nel no all’Unione bancaria. Ma cos’è, quest’unione? Un’istituzione comunitaria imperniata su tre pilastri: il meccanismo di vigilanza unico (in inglese, Single Supervisory Mechanism), che già è operante; e il Meccanismo di risoluzione unico (in inglese, Single Resolution Mechanism) che è poi il quadro normativo che ha generato anche le regole del famigerato “bail-in”. In origine, però, la costruzione dell’Unione bancaria prevedeva anche il sistema comune di garanzia dei depositi, che manca tuttora all’appello, e che appunto oggi per Draghi potrebbe riprendere il suo cammino progettuale, per i tedeschi no. E basta questo no perché la cosa non si faccia.
Basta questo per capire come siano i tedeschi, oggi, il vero ostacolo al cammino dell’Unione europea. Egemoni per cultura come sono sempre stati, altra unione non concepiscono che non sia quella sotto il loro dominio. Un tempo militare, oggi economico. Con buona pace dei nazionalismi e dei sovranismi più o meno scomposti germogliati in tanti paesi europei “sudditi” la realtà è questa. Che piaccia o no.