È proprio vero, la vita è questione di prospettiva. Dipende sempre da quale punto di vista guardi le cose e tutto può cambiare, mutare, divenire sostenibile o apocalittico. Prendete il Giappone, ad esempio. Quale notizia ci arriva dal Sol Levante? Una scuola inguaia il primo ministro giapponese Shinzo Abe e il suo governo. A ridare fuoco allo scandalo, Moritomo Gakuen, l’operatore degli istituti privati a cui nel 2016 il governo giapponese avrebbe ceduto un terreno pubblico a prezzo stracciato, è stata la rivelazione del ministero delle Finanze. 



In un documento di 80 pagine sulla vicenda trasmesso lunedì al Parlamento, il ministero ammette di aver “emendato” i rapporti relativi alla vendita, eliminando dalle carte fornite quando lo scorso anno lo scandalo era scoppiato ogni riferimento al governo e alla famiglia Abe. Il sospetto è che la moglie del premier Akie, amica dell’ex presidente di Moritomo Gakuen, abbia interceduto per scontare il prezzo dell’affare dell’86%. Accidenti, una storiaccia all’italiana nel Paese in cui i capitreno si suicidano per la vergogna e il disonore se arrivano in stazione con un minuto di ritardo. Davvero pensate che questa notizia degna del Fatto quotidiano e delle loro fisime legalitarie meriti interesse? Anzi, poniamo meglio la questione: è davvero il fatto più rilevante che giunge dal Giappone in questi giorni? 



No. E ce lo dicono questi grafici, i quali mettono in prospettiva ciò che l’altro giorno il capo della Bank of Japan, Haruhiko Kuroda, ha confermato alla stampa, vendendolo come un successo dell’Abenomics: l’Istituto centrale nipponico nell’anno fiscale 2017 ha comprato il 75% dei titoli di Stato emessi! E come ha commentato Kuroda la notizia? «I rendimenti in Giappone sono stabili», quasi volesse prendere in giro l’uditorio. Sembra un vecchio sketch dei Monty Python, quello del pappagallo morto, ma è purtroppo la realtà con cui dobbiamo fare i conti: con la sua politica onnivora di monetizzazione del debito al fine di battere il mostro della deflazione e raggiungere l’Eldorado del 2% di inflazione, governo giapponese e Bank of Japan sono riusciti nell’impresa storica di uccidere quello che era fino a due anni fa il più grande mercato obbligazionario del mondo. 



 

E non basta. Perché pur ammettendo a livello teorico che sarà difficile continuare con la politica di controllo dei rendimenti, se verrà a mancare la fiducia nel debito, Kuroda ha spiazzato tutti confermando che »questo non accadrà, perché la Bank of Japan ha il signoraggio». Più che altro, come ci mostrano i grafici, la Bank of Japan ha comprato talmente tanto debito – siamo nell’ordine di eccesso del 40% – che sono rimaste sul mercato pochissime securities che altri soggetti possano comprare o vendere, anche perché i pochi soggetti relativamente attivi nel trading – come assicurazioni e fondi pensione – seguono la strategia di buy-and-hold della Banca centrale. Risultato? Volume di trading sul debito sovrano giapponese pari a zero, tanto che nella sessione di martedì non è stata scambiata una singola note a 10 anni, non una! 

A confermarlo è stato lo strategist sui tassi di Barclays Securities, Naova Oshikubo. E nonostante la totale mancanza di liquidità in quello che invece era fino a poco tempo era proprio il segmento più liquido della curva dei rendimenti, il buon Kuroda si dice certo che l’Istituto di cui è alla guida sarà in grado di dar vita a un’uscita morbida e controllata dalla politica ultra-espansiva in atto, ovviamente aggiungendo immediatamente che oggi è presto per dare dettagli al riguardo, «visto che l’obiettivo prefissato per il tasso di inflazione è ancora distante». Ci mancherebbe, facciano pure con comodo. 

Parlando poi di fronte al Parlamento, ecco che Kuroda pare sbilanciarsi: «Combinando vari strumenti, è possibile contrarre i bilanci della Bank of Japan in un modo appropriato, mantenendo contemporaneamente i mercati stabili». Come no, chiedete a uno studente di economia del primo anno com’è possibile ritirarsi in maniera indolore da un programma di espansione monetaria e monetizzazione del debito nel quale si acquista il 75% delle emissioni obbligazionarie sovrane in un anno e vedrete cosa vi risponde, senza scomodare premi Nobel o professoroni. Anche perché non ci vuole un genio per capire che se i mercati money e bond perdono del tutto la loro capacità di prezzare il credito in base alle aspettative future sui tassi di interesse e su dinamiche di domanda e offerta, il rischio di una volatilità improvvisa legata proprio al costo del denaro dovuta a shock esterni come una crisi finanziaria, sale. E di effetti perversi della volatilità e degli shock improvvisi, in queste ultimo periodo ne abbiamo avuto la riprova. 

Ma di cosa parlano i giornali, in riferimento al Giappone? A un presunto scandaletto da favoritismo politico. Certamente, meno inquietante da raccontare. E, soprattutto, propedeutico alla continuazione imperterrita e non disturbata della narrativa riguarda la ripresa economica sostenuta e sincronizzata a livello globale, altrimenti il parco buoi col cavolo che si compra la carta igienica di cui le banche devono sbarazzarsi prima che valga quanto un cd di Gigi D’Alessio. E l’America? Beh, dagli Usa di notizie ne arrivano anche troppe. Ma queste è interessante, se posta in relazione proprio alle favolette riguardo l’economia che sprizza benessere da tutti i pori. Toys ‘R’ Us ha comunicato ai suoi dipendenti che chiuderà tutti i suoi negozi di giocattoli. 

La notizia, anticipata dal Wall Street Journal, è stata ufficializzata da una nota diffusa dall’azienda. La chiusura dei negozi produrrà il licenziamento di gran parte dei 33.000 dipendenti. L’ex colosso dei giocattoli, che ha fatto ricorso alla bancarotta lo scorso settembre, ha più 700 punti vendita negli Stati Uniti. Motivo della chiusura è l’impossibilità di competere con i big delle vendite on line e un debito accumulato di oltre 7 miliardi di dollari. Inoltre, il gruppo ha annunciato che chiuderà le proprie attività anche in Canada, Giappone, Germania, Austria e Svizzera, mentre per ora resteranno i punti vendita in Polonia, Francia, Australia, Spagna e Portogallo. 

Caso isolato? No, i dati di chiusura dei punti vendita al dettaglio negli Usa sono da apocalisse e i dati, freschi freschi, lo confermano. E attenzione, uno può prendersela contro Amazon quanto vuole, ma il gigante delle vendite on-line è il sintomo, non la malattia. Ovvero, se la propensione al risparmio è istinto naturale del consumatore (e gli Usa vedono il 70% del loro Pil basato sui consumi), quando le vacche sono grasse questa attitudine diventa meno maniacale e strutturale. Ma quando le dinamiche salariali languono, i debiti fissi del credito al consumo salgono, le spese fisse diventano insormontabili, allora anche un singolo dollaro risparmiato diventa terra di conquista, Everest da scalare, vetta da conquistare: ecco spiegati quei grafici, ecco spiegate le chiusure anche di grandi centri commerciali, ecco spiegati i falsi miti che si incrinano. Sarà per questo che il GDPNow della Fed di Atlanta, il tracciatore in tempo reale del Pil statunitense, è precipitato sotto quota 2%? 

E, visto il trend del surprise index economico degli Stati Uniti, c’è poco da sperare in un rimbalzo. Ma non era tutto rose e fiori con la riforma fiscale di Trump? Non fatevi ingannare, lo è. Ma non per le dinamiche di un’economia sana e normale. E, verrebbe da dire, di un mondo sano e normale. A cosa stanno portando, infatti, le politiche di Trump e le mosse azzardate che sta compiendo, come l’imposizione di dazi o il caos alla Casa Bianca dopo il licenziamento via tweet di Rex Tillerson dal Dipartimento di Stato? All’unico risultato che davvero interessa alla corporate America, quello rappresentato nel grafico più in basso, un dollaro debole che imponga al mondo l’export statunitense, alla faccia delle accuse di manipolazione e dumping che stanno proprio alla base delle scelte protezionistiche di Donald Trump. Se c’è un manipolatore al mondo, è Washington in questo momento, forte anche della leva ricattatoria della Fed, capace con un singolo sospiro rispetto alle dinamiche sui tassi di far crollare mercati e fiducia. 

Direte voi, sono masochisti, perché alla fine si tratta nella migliore delle ipotesi di un gioco a somma zero, se non in perdita, anche per l’unica beneficiaria in questi anni delle politiche della Federal Reserve, ovvero Wall Street? Balle e ce lo dimostrano questi grafici, dai quali desumiamo che a fronte di una fuga di massa da futures e opzioni si è registrata la scorsa settimana un inflow record legato proprio ai buybacks azionari, ovvero il riacquisto di azioni proprie da parte delle grandi corporations, finanziato grazie a emissioni obbligazionarie record per poco ancora garantite proprio dai tassi ancora relativamente bassissimi della Fed. 

Sicuri che, a fronte del terzo grafico, la Federal Reserve – e con essa la corporate America e la Casa Bianca – possano permettersi la fine o il netto rallentamento delle dinamiche di buybacks da record, a causa dell’aumento del costo del denaro che renderà quella pratica non più economica e vincente? A fronte di negozi che chiudono in massa, scorte di magazzino che salgono e vendite al dettaglio che si incagliano come le dinamiche salariali, gli Usa possono permettersi una crisi in piena regola di Wall Street? No. Almeno non ora, visto che le elezioni di medio termine sono ancora lontane e Donald Trump fa comodo alla Casa Bianca a fare il pazzo ancora per un po’. Ma arriverà il momento in cui il Deep State deciderà di schiacciare il pulsante della crisi, pronto a scaricare ogni responsabilità per il 1029 redux in arrivò sull’inquilino di Pennsylvania Avenue, levandoselo così di torno, alla faccia del make America great again. 

Parlavamo prima di gioco a somma zero? Bene, il capitalismo – almeno quello manipolato, distorto e di fatto statalista di oggi – è tale: Wall Street non perde mai, male che vada va in pari. Tanto, se anche l’economia arranca e il Pil cala, giocando sull’inflazione si può imporre l’agenda monetaria alla Fed e continuare con i buybacks, la vera spada di Excalibur che garantisce valutazioni alte dei titoli, flottante sotto controllo e, soprattutto, dividendi e bonus assicurati. 

Qualcosa può andare storto? Sì, quanto rappresentato nell’ultimo grafico, ovvero pensare di imporre alla Cina la sua personalissima versione del Trattato di Versailles in chiave di dazi che saltano fuori dal nulla e politiche anti-dumping, sperando che il gigante dell’impulso creditizio globale si goda la sua Weimar senza reagire: e con Mike Pompeo a capo del Dipartimento di Stato, i rischi in tal senso crescono.

Per una volta pagheranno anche gli intoccabili? Una cosa è certa, l’approssimarsi della nuova crisi ormai ha il passo pesante di chi si sta avvicinando. Noi pagheremo di certo, preparatevi. E la cautela nervosa usata l’altro giorno da Mario Draghi parlando del Qe fa capire che le necessità della Bce stanno divenendo, giorno dopo giorno, sempre più simili a quelle di Fed e Bank of Japan. Almeno qualcosa di sincronizzato a livello globale c’è, la rovina a cui ci hanno portato le Banche centrali con la loro strategia di leverage buy-out del mondo. Ma il grande problema globale è Vladimir Putin che si diverte ad avvelenare ex spie e congiunti.