Mi pare che il discorso del Papa a Cesena – citato in diverse occasioni – offra una chiave di lettura fondamentale per leggere la situazione politica che si è generata dopo il voto del 4 marzo: nel riscoprire il valore essenziale della convivenza civile, il Pontefice invita a dare il proprio contributo ascoltando tutti, specialmente giovani e anziani: “I giovani, perché hanno la forza di portare avanti le cose; e gli anziani, perché hanno la saggezza della vita, e hanno l’autorità di dire ai giovani – anche ai giovani politici -: ‘Guarda ragazzo, ragazza, su questo sbagli, prendi quell’altra strada, pensaci’. Questo rapporto fra anziani e giovani è un tesoro che noi dobbiamo ripristinare. Oggi è l’ora dei giovani? Sì, a metà: è anche l’ora degli anziani. Oggi è l’ora in politica del dialogo fra i giovani e gli anziani. Per favore, andate su questa strada!”.



L’appello è quanto mai accorato e, a mio parere, mette in luce il punto di forza e, allo stesso tempo, di debolezza dei vincitori. Il Movimento 5 Stelle è il partito politico con l’età media dei candidati più bassa, inferiore a 40 anni, per non parlare del candidato premier, Luigi Di Maio, classe 1986. Con il loro ingresso sulla scena politica nel 2013 si è ridotta l’età media del Parlamento italiano. Più o meno la stessa cosa vale per la Lega di Salvini, lui stesso ha 45 anni.



L’etichetta di “populismo” affibbiata durante la campagna elettorale sembra troppo sbrigativa, come del resto l’accusa di “voto di pancia” rivolta a coloro che hanno espresso a favore di questi partiti la loro preferenza; o almeno non spiega la trasversalità del voto che ha fatto breccia sia tra le fasce più povere della popolazione, sia tra quelle benestanti. Il problema è che in una società “liquida” come quella contemporanea le vecchie facce e i vecchi programmi, anche se più equilibrati e più realistici, non bastano più: la gente è tormentata dall’ansia del nuovo, di voltare pagina, così nella vita privata come in quella pubblica, e ai suoi occhi riproporre vecchi schieramenti o vecchie logiche politiche appaiono più disperati tentativi di rianimare un cadavere che programmi credibili.



Prendiamo una delle misure pentastellate più criticate in campagna elettorale, il reddito di cittadinanza: “Oltre due miliardi di euro per la riforma dei centri dell’impiego – si legge nel programma – facciamo incontrare davvero domanda e offerta di occupazione e garantiamo formazione continua a chi perde il lavoroCon la flex security le imprese sono più competitive e le persone escono da una condizione di povertà”. L’obiezione è fin troppo facile: dove reperire i fondi ed evitare il rischio assistenzialistico di mantenere una vasta platea di nullafacenti? Personalmente, resto convinto che sia più efficace spendere per creare lavoro, che rimane il miglior strumento di inclusione sociale; del resto, nel 2017 è stato introdotto il reddito di inclusione (Rei), una misura di contrasto alla povertà, che occorre potenziare, non sostituire. 

Tuttavia, non posso non sentire la protesta di chi, come a Pomigliano, essendo disoccupato e non avendo un soldo, non ha tasse da tagliare, ma ha bocche da sfamare, secondo la sfogo raccolto dall’inviato di un quotidiano nazionale in una delle zone più povere del Paese; oppure di fronte a salari da fame in cambio di lavori senza orario, insufficienti anche per campare una settimana, che toccano soprattutto il mondo giovanile. Cosa fare di fronte a tanto bisogno? Politiche fiscali e lavorative incentivanti sono certamente auspicabili, ma daranno i loro effetti negli anni, mentre la pancia va riempita da subito. Che dire, ad esempio, di fronte a una ragazza di 16 anni che studia su fotocopie gentilmente offerte dai professori, perché la madre non ha i soldi per comprarle i libri?

Ci può essere però – dicevo all’inizio – una grande insidia: quella di voler recidere qualsiasi legame con il passato, nell’ansia, appunto, di voltare pagina, o, per usare un’espressione divenuta corrente negli ultimi anni, di “rottamare” quel passato che invece si dovrebbe criticare, cioè con cui si dovrebbe fare i conti. Anche qui, l’analogia con la vita privata sorge quasi spontanea: cambiare a tutti i costi, come lo stato di un social, cela in realtà un permanente rifiuto di sé, che non consente di condurre un’esistenza normale, figurarsi di governare un Paese! Ora più che mai il “vecchio” può e deve far sentire la sua voce, fondendo l’esperienza della vita con l’impaziente forza giovanile: “la nostra eredità non è preceduta da alcun testamento” diceva Hannah Arendt riprendendo un aforisma dello scrittore francese René Char. 

Senza un testamento, cioè senza attribuire i beni passati a un nome “il tempo manca di una continuità tramandata con un esplicito atto di volontà e, quindi, in termini umani, non c’è più né passato né futuro, ma soltanto la sempiterna evoluzione del mondo e il ciclo biologico delle creature viventi. Così il tesoro non si è perduto per le circostanze storiche o per l’urto con una realtà avversa, bensì perché il suo apparire e il suo esistere non erano stati previsti da una tradizione, perché il tesoro stesso non era stato legato ad un testamento”, conclude la filosofa. Altrimenti, qualsiasi posizione è perdente, anche se si sono vinte le elezioni.