Non senza qualche ragione, c’è chi suggerisce alle forze politiche di “fare piano” nel confronto sulle ipotesi di formazione di un nuovo governo. Più realisticamente, il consiglio si confonde con le previsioni e forse anche con qualche auspicio. Resta il fatto che i tempi della politica – più lenti e incerti che mai – si misurano ancora una volta con quelli del mercato: soprattutto di quelle aree del mercato che confinano con la politica o ne sono condizionate.
La svolta improvvisa del caso Vivendi-Tim-Mediaset è il versante forse più visibile. Ancora alla vigilia del voto le previsioni degli osservatori e gli auspici di qualche protagonista convergevano: la lunga e faticosa stabilizzazione dei nuovi assetti di controllo Tim da parte del finanziere francese Vincent Bolloré sembrava marciare di pari passo con il progress del piano di scorporo della rete, utile anche all’accelerazione del piano Banda Larga. Ma la premessa implicita era una “non sconfitta” – come minimo – del Pd renziano e il prosieguo del governo Gentiloni (in particolare di Carlo Calenda al Mise). Il destino abbozzato per Tim s’inseriva poi nella prospettiva – data sempre per possibile/probabile – di un esecutivo sostenuto da Forza Italia: nell’ipotesi – pure gettonata – che Silvio Berlusconi fosse ri-legittimato dall’esito del voto come leader del centrodestra.
Il graduale avvicinamento di Mediaset alla “nuova Tim” era giudicato il risvolto finanziario prevedibile di una nuova fase politica italiana. Il 4 marzo ha mandato in frantumi ogni scenario e non ha affatto sorpreso l’improvvisa escalation condotta dal fondo Elliott su Tim. Accreditato di una quota superiore al 5%, il fondo americano sta mettendo sotto pressione il nuovo assetto manageriale di Tim, da poco incentrato sul Ceo franco-israeliano Anos Genish. Il Fatto Quotidiano vede dietro Elliott la mano di vecchi “boiardi” italiani – primo fra tutto l’ex amministratore delegato di Enel ed Eni Paolo Scaroni – intenzionati a scompigliare la francesizzazione concordata di Tim
In attesa di conferme o ulteriori colpi di scena, è però indubitabile che i mercati abbiano preso atto senza indugio del crollo brusco degli equilibri che hanno ruotato fino a due settimane fa attorno a Renzi e Berlusconi. Non è certo, peraltro, che la svolta sia sgradita al Cavaliere: che aveva subito l’assalto, in parte sorprendente, da parte del vecchio amico Bolloré. Il suo conflitto d’interesse strutturale potrebbe in ogni caso condizionare in modo pesante gli sviluppi politici: Mediaset è una carta ancora importante da giocare sul tavolo delle alleanze da un Berlusconi in oggettiva difficoltà. Soprattutto allorché è già evidente l’attrazione reciproca fra Rai e M5s.
Qui la politica – o settori di essa – potrebbe quindi avere convenienza a lasciarsi superare dal mercato. All’opposto – il governo targato Pd renziano – ha avuto una fretta indiavolata di chiudere la fusione fra Fs e Anas: praticamente a Camere sciolte e quindi con un timing assai discutibile. Tanto più che ultimi rumor segnalano la possibilità che sia stata partorita una fusione un po’ cieca: con alcune cifre di bilancio non a posto, per alcune opacità nei conti Anas. Non sarebbe affatto un buon viatico per un esecutivo qualsivoglia che dovesse metter mano all’avvio della privatizzazione delle Fs per rispondere alle sollecitazioni Ue sul fronte del debito pubblico. E le banche?
Fea qualche giorno apprenderemo, salvo colpi di scena, che il Credito valtellinese è divenuto provvisoriamente proprietà di una pattuglia di fondi internazionali che ne hanno faticosamente garantito una ricapitalizzazione-salvataggio. Ma chi ne diverrà il padrone vero nel risiko delle Popolari? E come finirà l’interminabile telenovela Carige? E come iniziarà la de-pubblicizzazione di Mps, necessaria pure ad assicurare un reale futuro strategico al gruppo?
Sbaglierebbe una politica italiana che si disinteressasse dei tempi del mercato: forse un po’ ingannata che la lunga transizione politica tedesca abbia rallentato il cantiere di riforma dell’euro.