Ma siamo proprio così sicuri che la riscossa del Sud dipenda soprattutto, se non esclusivamente, dalle risorse pubbliche che lo Stato dovrebbe destinare — sotto varie forme, dal reddito di cittadinanza a un piano di investimenti ad hoc — a quest’area del Paese, colpevolmente e da troppo tempo dimenticata e abbandonata?
La domanda non è peregrina, e non è affatto maliziosamente “nordista”. Non si tratta di “dissotterrare l’ascia” del residuo fiscale, cioè la differenza fra le tasse versate dai cittadini e il ritorno in termini di spesa per servizi sul territorio. La bilancia del dare-avere, si sa, pende dalla parte del Mezzogiorno: le regioni del Nord versano molto più di quel che poi ricevono, mentre al Sud accade il contrario. Il meccanismo del residuo fiscale, però, ha una sua logica, in chiave redistributiva, al fine di “promuovere lo sviluppo, la coesione e la solidarietà sociale e rimuovere gli squilibri economici e sociali”, come recita l’articolo 119 della Costituzione. Quindi, giusto destinare risorse aggiuntive ai territori in difficoltà o in ritardo (tutt’al più si tratta di stabilire a quanto possa ammontare una redistribuzione equa e congrua, ma questa è materia per esperti).
Il trend dei residui fiscali, comunque, dimostra come risorse supplementari a vantaggio del Sud non siano mai mancate. Anzi, secondo Salvatore Rossi, direttore generale di Banca d’Italia, uomo del Meridione che ama il Meridione, la questione meridionale — come ha scritto sul Foglio il 20 settembre 2017 — non è una questione, si chiama assistenzialismo secolare. “Dal Nord al Sud d’Italia — ha scritto Rossi — c’è, da sempre, un travaso di risorse pubbliche stimabile in quasi il 4% del Pil nazionale l’anno, dovuto a un meccanismo semplice: le entrate tributarie sono correlate al reddito dei contribuenti, che è strutturalmente più basso al Sud, mentre la spesa pubblica è uniforme nel paese, perché essa intende fornire a tutti i suoi cittadini lo stesso livello di servizio pubblico in tutti gli ambiti (istruzione, sanità, giustizia, e così via), anche indipendentemente dalla ricchezza o povertà dei cittadini medesimi. Quindi è la spesa pubblica universalistica il principale motore di redistribuzione delle risorse fra settentrionali e meridionali (…). Il punto principale di quel rapporto è che questo meccanismo redistributivo fra aree del paese ha funzionato poco e male, a causa di una gestione dei servizi pubblici che, a parità di risorse finanziarie, è molto peggiore al Sud che al Nord. Questo dato di fatto contribuisce a perpetuare la minorità del Sud”.
Riassumendo: ogni anno al Sud, tramite il bilancio pubblico stabilito dallo Stato, arrivano tra i 50-60 miliardi dal Nord (quasi il 4% del Pil nazionale). L’obiettivo è garantire, con questa spesa redistributiva, un eguale livello di servizi pubblici; l’obiettivo, però, non è stato centrato, perlomeno non ovunque. Il divario con il Nord resta ancora ampio, ma non si può dipingere, sempre e soltanto, il Mezzogiorno come una landa triste e abbandonata; è sbagliato. Esistono molti punti d’eccellenza, probabilmente più numerosi e vitali di quel che comunemente si pensi o si racconti.
Forse la questione meridionale è che si tratta ancora di punti, punticini, troppo sparsi, incapaci o impossibilitati a fare rete, sistema, traino virtuoso per altri. Lo stesso Rossi non manca di sottolineare “la minore dotazione al Sud di ‘capitale sociale’, quella grandezza intangibile che ha a che fare con il senso civico dei cittadini, con la fiducia verso gli altri, con la partecipazione alla vita comunitaria. E’ una grandezza difficile da definire quando c’è, è più facile vederne gli effetti quando manca”.
Il capitale sociale, il capitale umano più che il capitale finanziario potrebbe, dunque, rappresentare la chiave di volta per un cambio di passo e di paradigma per il Sud. Lo ha evidenziato anche il recente rapporto della Fondazione per la sussidiarietà: il Sud deve puntare sui giovani, il Sud deve concepirsi non più come periferia bensì come centro, in particolare del bacino del Mediterraneo, il Sud — soprattutto — deve diventare protagonista di un radicale mutamento del modello di sviluppo, più sostenibile, più sussidiario, più ancorato a quei soggetti, a quelle esperienze, a quelle realtà — e non ne mancano — capaci di catalizzare intorno a loro altri attori, pubblici, privati, profit e non profit, a vantaggio dell’intero sistema.
Non è, innanzitutto e soprattutto, un problema di soldi. E’ sempre più una scommessa sul protagonismo dell’io e dei corpi intermedi, a cui lo Stato, anche attraverso le sue diramazioni amministrative territoriali, deve garantire un sostegno e un supporto, in chiave dinamicamente sussidiaria (regole chiare, meccanismi non opachi, distribuzione delle risorse non più a pioggia, controlli ex post sui risultati…) e non meramente assistenzialistica. Per far sì che la nervatura dello sviluppo — economico e sociale — si ramifichi e attecchisca.
Sicuri che la ricetta giusta sia “solo” il reddito di cittadinanza o un nuovo piano nazionale per il Sud?