Come tutti, anch’io ho i miei piccoli riti quotidiani, le mie abitudini. Quella a cui tengo di più è la rassegna stampa estera. Al mattino, dopo aver bevuto il caffè al bar sotto casa, faccio una passeggiata in centro e vado a rintanarmi – ormai nemmeno più tanto furtivamente – nel reparto edicola di una grande libreria, fornitissima di giornali stranieri fin dal mattino presto. Sostanzialmente, scrocco i quotidiani. Non è un bel gesto, lo so, ma a mia parziale discolpa mi ripeto sempre un paio di cose. Primo, comprare tutti i quotidiani di cui sfoglio le pagine economico-finanziarie (Financial Times, Guardian, Daily Telegraph, Times, Liberation, Herald tribune, New York Times e Le Monde) mi costerebbe ben più 25 euro al giorno, visto i prezzi che hanno: non posso permettermelo, semplicemente. Secondo, ciò che carpisco (giuro che non rubo e non strappo nemmeno le pagine, mai) lo utilizzo poi per i miei articoli, quindi faccio divulgazione. Una cosa positiva che val bene un mal vezzo, almeno così mi piace pensarla. 



Stamattina non ha fatto eccezione e con rassegnata certezza già sapevo cosa mi sarebbe aspettato ben prima di varcare la soglia della libreria: il caso Facebook-Cambridge Analytica ovunque. E così è stato, senza alcuna eccezione. Certo, le sfumature erano diverse: qualcuno poneva l’accento sulla richiesta di spiegazioni verso il gigante social da parte delle autorità americane ed europee, qualcuno sui miliardi di capitalizzazione bruciati, qualcun altro ancora sul ruolo di Steve Bannon o, più in generale, su quello delle piattaforme social nella vita politica contemporanea. Accanto ai giornali stranieri, i quotidiani italiani: stessa musica, né più, né meno. Dopodiché, forse spinto da una naturale predisposizione al pensiero contrarian, ecco che mentre tutti sviscerano la faccenda, io vengo colto da folgorazione verso il rasoio di Occam e la sua logica spiazzante della soluzione più semplice: e se Facebook – così come tutto il comparto tech legato ai social network – fosse stato semplicemente sopravvalutato a livello enorme in fatto di capitalizzazione e qualcuno avesse pensato che fosse giunto il momento di sgonfiare un po’ la bolla, prima che esplodesse del tutto, portando con sé come danno collaterale tutto il Nasdaq e, magari, l’intera Wall Street? 



Perché lo dico? Prima, qualche ragionamento pratico-politico. Il caso è esploso dal nulla, dalla sera alla mattina, grazie alla confessione dell’ennesima gola profonda di questo periodo di veleni a orologeria, Christopher Wylie, 28enne canadese che le cronache ci tengono a farci sapere essere anche omosessuale e vegano, ma soprattutto capo-ricercatore alla Cambridge Analytica, quindi perno dell’intera operazione di targetizzazione di quei 50 milioni di utenti utilizzati, a detta della vulgata ufficiale, per orientare il voto presidenziale Usa e il referendum sulla Brexit. Perché parla ora? Non si sa, forse la coscienza cominciava a essere troppo pesante. O è stato pesante qualcos’altro, magari un bonifico o un assegno. 



Una cosa è certa: è lui a puntare il dito contro Steve Bannon, l’ex consigliere politico di Donald Trump, il quale avrebbe sfruttato i dati ottenuti illegalmente da Facebook per indirizzare le campagne politiche. Quindi, se non sono stati i russi, visto che non si trova una prova decente nemmeno a fabbricarla ex novo, c’è comunque stato un complotto contro Hillary Clinton ordito dalla destra interna. Già nel mio articolo di ieri vi ho dimostrato, tweet alla mano, che dallo stesso comitato elettorale di Obama si facessero vanto di avere in mano Facebook e la sua miniera di metadati, ma tant’è, occorre dargli al populista. Perché, però, Steve Bannon, messo alla porta in malo modo dalla Casa Bianca, non ha sfruttato l’occasione offertagli dall’intervista che ha concesso per il libro Fire and fury per attaccare e sbugiardare Trump e il suo intero entourage, ammettendo l’abuso nell’utilizzo di dati sensibili? Sperava davvero che la cosa sarebbe rimasta segreta? 

Non scherziamo, ci sono più scheletri negli armadi delle presidenziali Usa del 2016 che nei precedenti cinquanta anni di storia, caso Kennedy incluso: Bannon non ha detto niente perché, con ogni probabilità, non è successo niente. O, se è successo, tutti sapevano e il fatto che sia esploso il caso solo ora, totalmente a freddo, fa riferimento ad altro. Non mi sto rimangiando quanto scritto ieri, intendiamoci: penso che Facebook, esattamente come gli altri social, sia uno strumento di controllo sociale devastante e pericoloso, se ne si abusa. E, ovviamente, la politica e l’intelligence non potevano non sfruttarne le potenzialità, visto che la Cia – tra l’altro – ne ha facilitato e finanziato in parte lo sviluppo iniziale. Il martellamento assillante di messaggi apparentemente innocui cela in realtà un processo di condizionamento orwelliano che assomiglia molto a un lavaggio del cervello dolce e politicamente corretto, quindi non stupisce che le campagne in favore dei cosiddetti diritti civili trovino terreno fertile sui social: da quello a indirizzare un voto in massa ce ne passa, ovviamente, ma mai sottovalutare la stupidità media della gente. 

Ma ecco che la realtà ci mostra qualcosa, ovvero questi due grafici, i quali evidenziano come non solo le valutazioni di titoli social-tech come Facebook – ma anche Twitter e Instagram, non a caso crollati insieme al fratello maggiore nei giorni scorsi – siano totalmente fuori dal mondo, se approcciate con spirito pragmatico da valutazione macro e non politico-sociale, ma che ad avere in mano quei titoli siano fondi pensione e clientela retail, non soltanto grandi soggetti istituzionali o fondi. I quali, viste certe valutazioni e certi multipli, hanno ben pensato di scaricare a prezzo massimo quella carta al parco buoi, il quale – esattamente come per la bolla tech del 2000 – si è bevuto la narrativa del rally che non sarebbe finito mai, senza nemmeno ragionare sul dato minimo indispensabile per valutare il comparto: quanto altro possono espandersi i social network a livello di recettività globale? Praticamente zero, più di così è praticamente impossibile, possono solo regredire. E scandali come quello attuale, saranno la dinamo di molti “sloghi” di massa. 

 

Ragionate: il mondo occidentale è logato ai massimi, gli emergenti più “aperti” come l’India o il Brasile sono quasi al tipping point, mentre la Cina e il mondo arabo in generale non accetteranno mai un social totalmente libero e di massa, la censura metterà comunque un freno all’espansione: perché allora puntare tutto? Perché sei condizionato, altro che votare per Trump a causa di Facebook o Cambridge Analytica: il dato grave è che la classe media in via di proletarizzazione abbia in portafoglio non solo titolo di questo mercato drogato, ma, in particolare, bombe di sopravvalutazione come Facebook o Apple. Questo è il vero condizionamento, quello a danno del parco buoi che ancora una volta ha creduto alla favoletta dell’attitudine democratica di Wall Street, così generosa da voler dividere le fortune del rally infinito anche con le classi medie, con la Main Street che tende a fidarsi di tutto, visto che – formalmente – il suo eroe e difensore è l’inquilino della Casa Bianca e la difende dalle élites brutte e cattive, di cui però ha fatto parte e continua a fare parte. 

Ora, per tagliare la testa al toro, guardate il terzo grafico: non c’è una correlazione perfetta di sopravvalutazioni fra la bolla tech del 2000 e la traiettoria che il comparto social ha fatto prendere all’indice di riferimento del settore Internet Servives and Retailers dello Standard&Poor’s? Qualcuno, forse, non ha colto la palla al balzo e sfruttato il clima avvelenato della politica Usa, dove ogni venticello diventa tifone da scandalo globale, per far sgonfiare un po’ la bolla ed evitare un epilogo simile al 2000, visto che tutti ci ricordiamo come andò a finire l’epopea – anch’essa ritenuta invincibile e senza fine – della bolla hi-tech? 

Non è che la mitologica Silicon Valley, con i suoi dipendenti e ricercatori che dormono in macchina perché gli affitti sono esorbitanti anche per i loro stipendi (andate su YouTube e guardatevi qualche documentario al riguardo, è impressionante la realtà che ci nascondono), sta per mostrare al mondo le sue chiappe nude, esattamente come il Re della proverbiale favoletta, sbugiardato dal candore di un bambino? Le mitiche Fang (Facebook, Amazon, Netflix e Google) sono a fine corsa o, quantomeno, a corto di colpi di teatro? Certe valutazioni cominciano a scricchiolare e c’è il rischio che sia l’intero carrozzone a pagare il costo, quindi meglio che paghino Zuckerberg, Bezos (ai quali il cibo in tavola, comunque, non mancherà stasera) e il parco buoi che ne detiene fiero e fiducioso i titoli azionari con una bella e salutare correzione? Tanto più che nessuno, giornali (anche esteri in testa) pare porsi la questione, tutti vedono soltanto un enorme scandalo politico e di intelligence dietro il tonfo che sta colpendo Facebook e soci, quindi non c’è – formalmente – nemmeno il rischio di contagio da panico sugli indici, si tratta solo dell’ennesimo sporco trucco della destra sovranista che punta alla conquista del mondo! 

E il popolo bue, ovviamente, non solo se la beve, ma continua a pensare che il mercato sia fondamentalmente sano, visto che punisce gli abusi come quelli denunciati con timing straordinario dal nostro gay vegano canadese (fosse stato etero e carnivoro la gente si sarebbe fidata meno, tratti peculiari troppo di destra e machisti). Signori, siamo nel Matrix dentro al Matrix, si usa una verità per coprirne un’altra più grande e strutturalmente più pericolosa: Facebook può anche fallire, perdere utenti, non garantire più pubblicità, dati e profilature, ma se stavolta cade in maniera incontrollata Wall Street per lo scoppio di una delle tante bolle – sempre negate dalle Banche centrali che le hanno create -, allora sono guai. E guai grossi, visto che stampare ancora si può, ma significherebbe doverlo fare per sempre, distruggendo il concetto stesso di mercato per decenni e decenni, non fosse altro per il livello di debito pubblico e privato che fa da collaterale alla catena di controparte del casinò globale. 

Esagero? Con mia grande soddisfazione, lunedì anche Ambrose Evans-Pritchard sul Daily Telegraph ha trattato il tema dei tremori in stile Lehman del mercato interbancario e del finanziamento globale in dollari legato al Libor-Ois ai massimi e siccome siamo nelle ore in cui la Fed deciderà i destini di parte del mondo con la sua mossa sui tassi, guardate questo grafico: ci mostra come il movimento al rialzo del Libor-Ois tendenzialmente porta a un netto apprezzamento del dollaro nei tre mesi successivi. E cosa accadrà se davvero il biglietto verde dovesse partire a razzo, a causa della sua scarsità in ambito di finanziamento globale per via anche dei rimpatri dei fondi offshore? 

 

Primo, una bella crisi immediata del servizio del debito in dollari nei mercati emergenti, un Bernanke tantrum 2.0 ma in una condizione macro globale ben peggiore di quella del 2013. Secondo, come pensate che reagirà Wall Street a un dollaro forte e quindi all’ipotesi di una Fed che entri in campo, soprattutto impattando sull’obbligazionario? E attenzione, perché dall’inizio del ciclo di normalizzazione del costo del denaro post-Qe, la Fed ha alzato i tassi in totale dell’1,25% in cinque sessioni di aumento, mentre per quest’anno si parla di almeno quattro ritocchi all’insù: ma le banche hanno alzato i tassi sui conti dei clienti solo dello 0,21%, se prendiamo ad esempio JP Morgan Chase, fregandosene dei tassi ufficiali e continuando a macinare utili e profitti alla faccia dei clienti, se non quelli più facoltosi e le grandi aziende, i quali hanno invece beneficiato da tempo di un trattamento particolare. 

Ma attenzione, se il grafico più sotto ci mostra plasticamente la dinamica in atto, cosa accadrà se la Fed agirà davvero in maniera risoluta? Cosa accadrà ai costi per le banche, dovendo alzare i tassi di interesse, visto che l’aria che tira ha già portato quello sul certificato di deposito a un anno allo 0,49% la scorsa settimana negli Usa, il massimo da più di sette anni, stando a tracciatura di Bankrate.com? 

 

E soprattutto, come ci mostra questo ultimo grafico, cosa ne sarà del motore della crescita dei consumi Usa, ovvero i prestiti di credito e l’abuso di carte di credito e debito, se i tassi reali seguiranno quelli ufficiali e la Fed farà davvero ciò che dice? Tranquilli, è tutta una sciarada per arrivare a un altro Qe. Altrimenti, preparatevi al botto. Altro che Facebook e ricercatori vegani e gay dalla coscienza a orologeria…