La notizia di ieri è che la Germania non cambierà la propria politica economica e continuerà a violare le regole europee. Olaf Scholz, il neo ministro delle Finanze tedesco, della Spd, ha dichiarato ieri al Wall Street Journal di non avere intenzione di abbassare le tasse per stimolare la domanda interna e ridurre la dipendenza dalle esportazioni. Il quotidiano americano nota che i vicini europei speravano in un cambio di politica. Riguardo alle critiche per il surplus commerciale tedesco la difesa è di questo tenore: “Nessuno ci ha mai criticato per avere un’economia altamente performante e competitiva”.
I tedeschi evidentemente pensano di essere più furbi di tutti. Che il surplus commerciale tedesco sorpassi di molto quello della Cina o del Giappone è un fatto inspiegabile anche contando la bravura tedesca; è un fatto altrettanto innegabile che se la Germania fosse da sola con un tale surplus finanziario e un tale surplus fiscale oggi la sua valuta sarebbe fuori dal grafico.
Per comprendere costa stia succedendo basta osservare quello che è successo in Svizzera dopo la crisi. La banca centrale svizzera è stata “costretta” a espandere il suo bilancio comprando asset esteri per contenere la rivalutazione del franco svizzero. Senza l’Europa la Germania sarebbe costretta a investire all’estero per evitare di ammazzare il proprio export con una rivalutazione del marco che oggi sarebbe spropositata. La Germania non esporta solo beni, ma esporta deflazione e disoccupazione accumulando surplus commerciali e finanziari che la pongono in una situazione unica non rispetto all’Europa ma rispetto al mondo; Giappone, Regno Unito, Stati Uniti e Cina hanno aumentato il proprio debito pubblico grandemente negli ultimi anni.
Gli indicatori economici tedeschi degli ultimi dieci anni sono completamente “innaturali” perché frutto di una costruzione europea artificiale che non permette nessuna camera di compensazione dei suoi squilibri. La Germania ottiene quei numeri perché compete con un euro svalutato e, unico caso al mondo, non rischia che il proprio surplus finisca in una rivalutazione del cambio.
La politica tedesca comporta problema esterni nella misura in cui il resto del mondo lamenta, a ragione, una competizione scorretta e problemi interni perché un’unione fondata su un cambio unico e un’unica banca centrale non potrà mai funzionare se nell’unione si assiste all’accumulo di squilibri che in qualsiasi altro Stato si ridurrebbero naturalmente via Stato centrale. Le differenze tra il New Jersey e l’Alabama vengono contenute dalla redistribuzione delle risorse via “Washington”.
La Germania non può non aver capito cosa produca la sua politica e cioè l’esplosione delle differenze in Europa, con un aumento della conflittualità ben rappresentato dall’emergere di partiti populisti (anche in Germania), e la reazione dei Paesi extraeuropei con un aumento della conflittualità verso l’esterno. Gli Stati Uniti sanno che i dazi che esistevano venti anni fa non funzionano più perché la Germania non rivaluta più il suo marco. La Germania si nasconde dietro l’Europa proclamando i principi del libero commercio, ma non è più credibile perché il gioco ormai è palese. Usando l’Europa come scudo umano per difendere politiche che sono scorrette la Germania sposta il mirino da se stessa a tutta l’Unione sperando in questo modo di aumentare il proprio potere negoziale.
È un gioco pericoloso perché rischia di passare l’idea che per riequilibrare lo squilibrio tedesco bisogna smontare l’Europa. Se l’euro e l’Europa finissero domani, la Germania si ritroverebbe in una situazione di arrivo infinitamente solida e molto migliore di quella d’entrata, mentre i suoi competitor, tra cui il principale italiano, ne uscirebbero a pezzi. Il corollario di questa analisi è che a non credere all’Europa e proprio e in primis la Germania che la sta usando per i propri interessi esclusivi senza condividere un singolo euro dei benefici ottenuti. L’Italia invece per il progetto europeo si è letteralmente svenata rinunciando a qualsiasi sovranità, facendo comprare qualsiasi cosa e abbracciando una politica di austerity che l’ha distrutta rinunciando anche alla svalutazione della sua moneta.
In pratica con l’Europa la Germania ha impedito all’Italia di continuare con il modello di sviluppo che per cinquanta anni le aveva garantito la prosperità impossessandosi perfino della possibilità, parte del modello italiano, di competere nel mondo con un cambio svalutato. L’Italia ha rinunciato al suo modello per l’Europa, ma la Germania non ha mai rinunciato al suo e non ci rinuncia oggi anche a costo di uccidere l’Europa.
Oggi l’Europa si regge sull’accordo franco-tedesco, ma non è affatto chiaro quale sarà la reazione francese quando la Francia sarà costretta ad attuare l’austerity vera in casa sua per continuare a tenere in vita l’attuale politica economica europea tutta basata sulle esportazioni e non sugli investimenti. Il supporto dell’establishment all’attuale Unione, a ogni costo incluso l’autodistruzione italiana e incluso l’esplosione dei conflitti, oggi sembra monolitico; dire che l’Unione non funziona e che forse bisognerebbe pensare di smontarla per tenere in vita il suo spirito migliore garantisce di diritto un posto tra i reietti, tra i populisti, tra i retrogradi e forse, persino, tra i “fascisti”.
Le cose però cambiano sempre più velocemente di quello che ci si aspetta. Scommettere su questa struttura europea oggi significa scommettere su due cose: sulla tenuta dell’accordo francese nel breve e, nel lungo, sulla capacità della Germania di sfilare la sovranità a tutti i vicini dominando il continente, per impedire il necessario riequilibrio tra i Paesi membri, usandolo conflittualmente con i Paesi extraeuropei. L’ultima volta che l’Italia ha seguito la Germania su un’idea del genere è finita molto male; per loro e per noi.
Ultimissima nota. Pensare che la posizione americana sia un fatto contingente causato da Trump probabilmente è un errore. I democratici che non hanno voluto cambiare niente erano amati dai tedeschi, ma hanno perso le elezioni in casa. Forse al prossimo giro due conti li fanno anche loro.