Gli Usa hanno esportato sicurezza e crescita economica nel corso di circa quarant’anni: quelli della Guerra fredda con l’Urss. L’impegno nordamericano seguiva il tracciato dello scontro e insieme dell’equilibrio instabile di potenza: era l’effetto del terrore atomico, della possibile guerra nucleare. La partita in gioco era chiara ed ebbe i suoi riflessi profondi in Europa: la divisione della Germania accettata e fondata sul ruolo della Nato e sul disarmo tedesco, mentre le due altre potenze nucleari, il Regno Unito e la Francia, perseguivano i fini di potenza nazionale in un rapporto sempre critico con gli Usa. Rapporto che si è ancora di più incrinato tra Usa e Germania dopo le guerre mesopotamiche dell’inizio del secondo millennio, in cui gli Usa sono stati lasciati soli dall’Europa e dopo le frodi tedesche sul diesel, che hanno ancor più peggiorato i rapporti.
La politica doganale era la conseguenza di una situazione di potenza che si chiamò “Guerra fredda”. Gli accordi multilaterali commerciali, d’altro canto, dovevano garantire in Occidente la circolazione delle merci in un sistema di cambi variabili e dopo il 1971 non più fondati sul dollaro come moneta di riferimento. Il dominio Usa rimaneva, ma era sempre più indebolito. L’ondata libero-scambista era moderata tuttavia dalla creazione di isole di protezionismo continentale o para- continentale in cui all’interno si circolava liberamente tra stati con le merci fisiche e le merci simboliche (gli scambi in moneta), ma erigendo nel contempo alte barriere protezionistiche contro le altre aree del mondo. L’Ue (già con il Mercato europeo comune sin dal 1957) fu una delle prime di queste aree, aprendo la via all’unione doganale tra Usa, Messico e Canada (il Nafta) e al Mercosur (Argentina Brasile Paraguay Uruguay e Venezuela). Un movimento che investì anche l’Africa e che è profondamente sottovalutato, soprattutto oggi! Pensiamo alla Sacu, che è la più vecchia unione doganale del mondo nel Novecento, fondata nel 1910 come Customs union agreement tra l’allora Unione sudafricana e le altre colonie britanniche come Bechuanaland, Basutoland e Swaziland. E pensiamo altresì all’Unione doganale costituita con sede a Bangui (Repubblica Centro-Africana) nel 1964 da Camerun, Chad, Gabon, Repubblica Centro-Africana, Repubblica del Congo ai quali si è aggiunto nel gennaio 1984 la Guinea Equatoriale. Tutti stati facenti parte dell’area del franco francese, ossia della Cemac (Communauté Économique et Monétaire de l’Afrique Centrale).
Tutto questo movimento inarrestabile negli anni che seguono la fine della Seconda guerra mondiale inizia a spegnersi circa trent’anni fa con la quasi contemporanea ascesa della Cina come potenza economica mondiale e il crollo dell’Urss. Crollo a cui non fa seguito nessuna assise internazionale che ridisegni la cartina geografica del mondo secondo linee di potenza rinnovate con il pennello della politica. Politica che altro non è che il preludio degli accordi militari. Non a caso, infatti, il movimento espansivo del libero scambio su scala mondiale attraverso accordi commerciali multilaterali via via si arresta. E la Wto (l’Organizzazione mondiale per il commercio) che quel liberoscambismo mondiale dovrebbe inverare, decade e fallisce. Si torna ai trattati bilaterali, mentre si staglia all’orizzonte la tanto decantata globalizzazione e nessuno si accorge di un’evidente contraddizione che racchiude l’essenza profonda delle decisioni odierne di Trump sul commercio mondiale.
La globalizzazione è stata in larga parte un gioco di specchi. L’unica merce veramente globalizzata è stata la moneta e il capitale come flusso e non come investimento. Il fiume della finanza circolava e circola in un letto pieno di scogli, paracarri, dighe e tutto travolge inarrestabilmente dopo le decisioni angloamericane della fine degli anni Ottanta del Novecento (Clinton e Blair) di sregolare i mercati finanziari e di privatizzare le banche abolendo la distinzione tra banche d’affari e commerciali e dando così vita alla finanza distruttrice dei derivati e delle collateralizzazioni dei debiti. Il tutto mentre, per decisione di Clinton, e quindi della finanza sregolatrice che governa la classe politica Usa con un sistema lobbistico unico al mondo, si consentiva alla Cina di entrare nella Wto senza di fatto contropartita alcuna.
Le conseguenze sono state terribili. Il mondo è stato invaso da merci a bassissimo contenuto di valore e ad alta aliquota di distruzione dell’ambiente e della sostenibilità. La deindustrializzazione era l’inevitabile conseguenza di questa inaudita misura dettata solo dall’interesse finanziario e speculativo dei manager stockopionisti delle grandi banche d’affari. Si ponevano le basi per la distruzione della stessa potenza Usa.
I dati del commercio mondiale nel segmento Usa-Cina sono eloquenti e implacabili La Cina è il primo partner commerciale degli Stati Uniti, con un terribile sbilanciamento a favore di Pechino:?nel 2017 il commercio bilaterale ha raggiunto i 636 miliardi di dollari, con 130 miliardi di dollari di esportazioni americane e 506 miliardi di importazioni, con un surplus di 376 miliardi a favore di Pechino. Trump è determinato a ridurre tale squilibrio usando l’argomentazione della minaccia alla sicurezza nazionale e della violazione della proprietà intellettuale attraverso massicci trasferimenti di tecnologie americane alle élite belliciste cinesi.
L’Unione europea, nel mentre, si è baloccata per anni nel dichiarare o no la Cina (udite! udite!) economia di mercato e ora teme le misure di Trump che sono invece dirette a difendere anche la stessa Europa che via via si è privata di quell’esile protezionismo selettivo che ne caratterizzò gli inizi fondativi, quando la cultura industriale prevaleva su quella finanziaria-speculativa. Ora tra le classi dominanti e tra la tecnocrazia europea via via sempre più oligarchicamente protesa a un liberismo amministrato dall’alto delle procedure e lontano dal rasoterra della sana competizione tra imprese, si diffonde la paura e l’angoscia dinanzi all’attivismo neoprotezionistico positivo di Trump e altro non si sa fare che battere i pugni e minacciare ritorsioni, dimenticando che l’Europa senza gli Stati Uniti non è nulla. Cooperare con gli Usa è meglio che competere dinanzi all’aggressività cinese.
Gli Usa hanno iniziato minacciando dazi sull’acciaio. L’Europa ha strillato senza mai dire ciò che noi italiani abbiamo detto invece sin da subito con il professor Gozzi, presidente illuminato di Federacciai. Ossia che il pericolo che ne deriva per l’Europa e per l’Italia da quei dazi scaturisce dal fatto che l’acciaio che rimbalza contro gli scudi daziari nordamericani finirebbe in Europa, danneggiando forse per sempre la nostra industria: si tratta appunto della concorrenza fraudolenta dell’acciaio cinese e asiatico di cui ancora oggi l’Europa non si preoccupa chiedendo soltanto l’esenzione dell’Ue dalle misure nordamericane! Invece è il momento per cogliere l’occasione per ridefinire tutta la politica mondiale doganale e del commercio approfittando del salutare scossone che Trump ha dato a un sistema insostenibile e che porta alla distruzione vera e propria non solo dell’industria, ma dello stesso sistema sociale occidentale.
Il nemico è la Cina. L’Europa deve capirlo prima che sia troppo tardi.