Sarà una primavera ad alto tasso di tensione. A fine aprile, tanto per cominciare, si chiuderà la finestra temporale imposta dagli Usa a Pechino per correggere gli squilibri commerciali tra le due potenze. A prima vista sembra impossibile che si riesca a trovare un accordo visto il diktat imposto dagli Usa al presidente Xi Jinping e le dimensioni dei dazi minacciati da Washington: 60 miliardi di dollari. Pechino, però, non sembra voler rispondere sul fronte dell’agricoltura, il tallone d’Achille di Trump. Se Pechino rinunciasse agli acquisti di soia e di altri cereali coltivati nell’immenso Midwest a stelle e strisce, il danno per l’economia di una regione chiave per gli umori dell’elettorato americani sarebbe enorme. 



Ma la scelta Usa di offrire la via d’uscita di un negoziato offre uno spiraglio di ottimismo, salvo prender atto che, in prossimità della scadenza dell’ultimatum, arrivano al pettine due nodi altrettanto pericolosi: l’apertura dell’ambasciata Usa a Gerusalemme e la verifica dell’accordo sul nucleare iraniano che difficilmente verrà confermato da Washington, come lascia prevedere la nomina a Consigliere per la sicurezza di John Bolton, il superfalco che non fa mistero di considerare un grave errore l’apertura a Teheran. 



La rottura dell’intesa sul nucleare aprirà la strada a nuove sanzioni contro il greggio iraniano, appena uscito dall’embargo, con il risultato di sostenere i prezzi del greggio (compreso lo shale oil americano) a tutto vantaggio dell’Arabia Saudita che gentilmente ricambia con nuove commesse militari per un miliardo di dollari all’industria Usa. Non è infatti difficile collegare le ultime tessere del puzzle mediorientale alla visita del principe saudita Mohammad Bin Salman negli Usa per rafforzare l’asse sunnita contro gli sciiti iraniani.

Questioni commerciali, ultimatum politici ed escalation militari sono destinati così a segnare il prossimo futuro dei mercati finanziari. L’Europa è per ora sfuggita alla tagliola dei dazi su acciaio e alluminio. Ma non è il caso di festeggiare: Trump, una volta messi nel cassetto i dazi, può far ricorso ad altre armi (vedi le quote di importazione) oppure contare sulle divisioni altrui. Non a caso la Germania ha frenato sull’introduzione della web tax per evitare reazioni americane contro l’import di auto. Archiviata la Grande recessione, avviata negli Usa la fase di normalizzazione dei tassi di interesse, la comunità finanziaria si trova così oggi alle prese con una fase nuova, caratterizzata dal confronto a distanza tra le grandi potenze esportatrici, Cina in testa, e Washington che vuole chiudere una lunga stagione storica in cui è stata la paladino del libero scambio. Le parti, infatti, si sono invertite.



Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti offrirono a Europa e Giappone accordi commerciali molto favorevoli in modo da facilitarne la ricostruzione. Questa situazione squilibrata si è protratta fino a oggi. La riforma fiscale americana approvata in dicembre voleva correggere uno di questi fattori di squilibrio (quello per cui l’America è l’unico Paese che non rimborsa le imposte indirette ai suoi esportatori e l’unico che non tassa l’import), ma la lobby degli importatori lo ha impedito. Gli Stati Uniti sono del resto l’unico Paese in cui la lobby degli importatori è più forte di quella degli esportatori.

Intanto la Cina, grande alfiere del libero commercio come lo sono sempre gli esportatori netti, aggiunge agli squilibri negli scambi un atteggiamento aggressivo nell’appropriazione di proprietà intellettuale. Se un’impresa tecnologica occidentale vuole operare in Cina deve cedere know-how, altrimenti non viene ammessa. Negli altri settori, come l’acciaio, la Cina finanzia le perdite delle aziende pubbliche, che possono così esportare sottocosto e mandare fuori mercato i concorrenti americani ed europei. 

Non è del tutto incomprensibile, alla luce di queste considerazioni, la preoccupazione americana di riequilibrare i rapporti commerciali. “Sarebbe bello – ironizza Alessandro Fugnoli – se i fautori del libero scambio, oltre ad alzare la voce nei casi in cui chi è meno protezionista decide di diventarlo come gli altri, si levassero anche contro chi rimane, come Europa e Cina, più protezionista degli altri”. Basti pensare all’avanzata della Germania, favorita dall’euro, moneta senz’altro più debole di un “nuovo marco” alla luce della forza della locomotiva tedesca. 

In questo quadro l’Italia, che in questi anni ha affidato all’export tutte le speranze per uscire dalla crisi, rischia di trovarsi in una situazione fragile. In questi anni ha saputo reagire alle sfide del commercio internazionale, senza naufragare di fronte a una concorrenza spesso sleale e ha rinnovato in maniera profonda ed efficace la sua offerta nell’economia globale. Ma resta un competitor debole, ben rappresentato solo dalle piccole e dalle medie imprese, ma poco presente nella sfida quando i giochi si fanno più spessi. Certo, la Germania rischia di perder colpi nell’industria dell’auto, se Trump stringerà sull’import delle quattro ruote (comune il più delle volte prodotte oltre Oceano). Ma all’Italia potrebbe andare peggio: non è difficile prevedere tempi grami per gli impianti Fiat che producono Jeep destinate al mercato Usa.