Una guerra commerciale mondiale sembrava molto vicina. Siamo stati tutti con il fiato sospeso per oltre un mese mentre la Casa Bianca pareva accusare di “pratiche commerciali scorrette” questa o quell’area e, invece, di ricorrere all’istituzione internazionale preposta a dirimere controversie di questa natura, l’Organizzazione mondiale del commercio, minacciava “dazi di ritorsione” elevatissimi. La guerra pare finita o almeno sospesa per il momento. Nei confronti, però, non di tutti. Il cane ha abbaiato contro l’universo mondo, ma alla fine ha morso nei confronti di un unico obiettivo: la Repubblica popolare cinese. Ha annunciato elevati “dazi di ritorsione” nei confronti di importazioni dalla Cina negli Usa per circa 60 miliardi di dollari l’anno e indicato che varerà nuove restrizioni agli investimenti americani in quel che fu il Celeste Impero e, di converso, vincoli a investimenti cinesi negli Usa, nonché – aspetto fondamentale ma quasi ignorato dalla stampa italiana -, si è impegnato a denunciare Pechino agli organi giurisdizionali Omc per il suo regime di licenze tecnologiche che, in barba alle convenzioni su proprietà intellettuali e brevetti, le mega imprese cinesi copierebbero e taroccherebbero, soprattutto nei campi delle telecomunicazioni e dell’informatica.
In breve, dal 22 marzo, gli Usa applicano “dazi di ritorsione” del 25% sulla siderurgia e del 10% sull’alluminio importato dalla Cina, che, dal canto suo, sta considerando misure analoghe su una vasta gamma di importazioni dagli Stati Uniti. Il provvedimento americano sulla siderurgia contiene la facoltà di misure temporanee nei confronti di Canada, Messico e anche Unione europea, Corea del Sud, Argentina, Australia e Brasile (complessivamente due terzi delle importazioni siderurgiche negli Usa). Ma è tutt’altro che chiaro che la Casa Bianca se ne avvarrà.
In effetti, la contenzione di Washington con Pechino su siderurgia e alluminio è, in gran parte, una falsa pista. Alcuni prodotti siderurgici colpiti dalle misure Usa non sono prodotti (e tanto meno esportati) nell’ex Celeste Impero. Il vero obiettivo riguarda il “taroccamento” di prodotti ad alta tecnologia americani brevettati. Controversie legali in materia riguardano l’Omc e possono durare anni; nel contempo, i mercati (specialmente quello Usa) verrebbero inondati di prodotti e servizi di origine cinese, spiazzando le aziende high tech americane. Le quali non guarderanno con favore ai candidati più vicini alla Casa Bianca alle non più tante lontane elezioni di mid-term (6 novembre prossimo). I super-dazi contro la Cina sono, quindi, uno strumento per giungere a un accordo su un terreno quanto mai difficile, tanto più che Pechino ha blindato le proprie reti nei confronti di Apple, Google, Amazon e Facebook, i quattro “grandi” dell’high tech, e ha creato giganti analoghi (spesso copiando quelli Usa) per il proprio mercato, nonché mirando a quello di altri Paesi asiatici.
Tuttavia, le minacce, prima, e le misure, poi, dell’Amministrazione Trump hanno risvegliato programmi di integrazione commerciale che sembravano morti e sepolti. Il principale riguarda l’area del Pacifico. Un progetto in tal senso era stato lanciato con molto clamore alla fine degli anni Ottanta: avrebbe compreso una vasta area di libero scambio di tutti i Paesi che si bagnano sul Pacifico – dal Nord America al Sud America, da un lato, e dall’Australia, alla Nuova Zelanda e alle “tigri asiatiche”, dall’altro. Ora sta rinascendo. Il Cile ha appena ospitato un’assise di undici Stati – dal Canada all’Argentina, su un fianco del Pacifico, e dall’Australia a Singapore, sull’altro. Un’area di 300-500 milioni di persone (il numero varia a seconda degli Stati che aderiranno) il cui tenore di vita e potere finanziario è in rapido aumento. Mentre trent’anni fa gli Usa erano alla guida del progetto, oggi non ne fanno parte. Anzi, alla riunione a Santiago del Cile si respirava un’aria chiaramente anti-americana.
Qualcosa del genere sta avvenendo in Africa a sud del Sahara per iniziativa segnatamente dell’Ecowas (la Comunità dei 15 Stati dell’Africa occidentale). Il programma è di lanciare un’area di libero scambio tra gli Stati membri sin dal 2020; si prospetta anche, in un’ottica di più lungo periodo, un tragitto verso una moneta unica. Il Paese più grande, la Nigeria, per ora non fa parte del gruppo. Secondo i dati della Banca mondiale, l’Africa sub-sahariana può raggiungere un Pil di 29 trilioni di dollari nel 2050, ha già 14mila milionari, la spesa per infrastrutture è pari al 3,5% del Pil.
La creazione di questi e altri mercati comuni e zone di libero scambio potrebbe, nel tempo, isolare gli Usa. La business community americana se ne rende ben conto e per questo motivo ha osteggiato e osteggia i “dazi di Trump”.