Repubblica ha dedicato un’intera pagina al presidente della Bnl, Luigi Abete che avrebbe premuto sui dirigenti della banca per accelerare la concessione di un prestito a una società di cui è socio. La storia, in sé, presenta un indubbio appeal giornalistico: il “cattivo banchiere” è un mostro per eccellenza nel format neo-populista; e Abete è personaggio pubblico di lunghissimo corso (da vent’anni al vertice Bnl, ex presidente di Confindustria, editore dell’agenzia Askanews, consigliere del Sole 24 Ore, socio di Cinecittà Studios etc). L’operazione del quotidiano suscita tuttavia più di un interrogativo d’attualità.
Il primo è di metodo. Il servizio è totalmente costruito su intercettazioni telefoniche – definite dallo stesso quotidiano “casuali” – di colloqui con un dirigente Bnl indagato in una specifica inchiesta, nella quale Abete non è coinvolto e tanto meno indagato (né lo è per altre vicende). È esattamente la fattispecie delle intercettazioni “occasionali” e “non rilevanti ai fini dell’indagine” messe nel mirino dalla recente riforma Orlando: frutto, essenzialmente, del lungo confronto politico sulla necessità di porre limiti alla pubblicazione selvaggia di brogliacci giudiziari.
La riforma inizia proprio in questi giorni la sua attuazione, benché siano tutt’altro che placate le tensioni fra forze politiche, magistrati, avvocati e giornalisti. Può darsi che Repubblica segnali di voler “resistere-resistere-resistere”, nonostante la riforma sia stata varata da un governo “amico” di centrosinistra. Può darsi che il quotidiano, dopo il voto del 4 marzo, ammicchi al lettorato/elettorato M5S, che ha avuto finora nel Fatto Quotidiano il medium di riferimento, cannone sempre carico di leaks giudiziari. Resta il fatto che l’ennesimo caso di laboratorio italiano si muove in questi giorni un un calderone ben più grande e ribollente: quello delle polemiche globali sull’affaire Facebook.
C’è un limite alla “libertà d’intrusione tecnologica” – disponibile sul mercato – nella privacy di persone, aziende, partiti e istituzioni? Quando un tracciamento è lecito – anche solo socialmente, nella “democrazia di fatto” – e quando è abusivo e illegale? Su questo fronte Repubblica – non da sola – in questi giorni è parsa non aver dubbi nel condannare il furto massiccio e mirato di dati sensibili raccolti da Facebook da parte di Cambridge Analytica a fini di azioni di manipolazione dell’opinione pubblica.
Un seconda riflessione può entrare più nel merito del “caso Abete”: che è stato presentato-denunciato come “conflitto d’interesse”, in una cornice di tendenziale “scandalo”. Il rischio-fake è fin da qui reale. Se l’accostamento è al “conflitto d’interesse” archetipico di Silvio Berlusconi il fake è anzi totale. Bnl è una società privata, non quotata in Borsa e di proprietà di un solo soggetto (il gruppo francese Bnp). Se il presidente ha esercitato in modo anomalo le proprie funzioni il problema è di Bnl e dell’azionista unico Bnp. Abete non è un sindaco che ha favorito il figlio per un appalto o un ministro che ha fatto lobbying privata per proteggere il padre banchiere.
Se le cose stanno come raccontano le intercettazioni leakate, il presidente può aver esposto la Bnl a un rischio non dovuto, violando presumibilmente alcune procedure interne. Ma chi lo deve giudicare sono i consiglieri d’amministrazione e in ultima istanza la capogruppo francese: a meno che la Bnl non finisca in liquidazione (come Banca Etruria o Popolare di Vicenza) o se l’operazione spinta da Abete s’impigli nella rete di altre procedure giudiziarie.
Su questo piano, è vero, vi sono altri soggetti potenzialmente interessati al “caso Abete”: la Bce e la Banca d’Italia, che esercitano la vigilanza bancaria e che tutelano l’interesse pubblico della stabilità del sistema finanziario (ma per via amministrativa, non giudiziaria). Il tema è di bollente attualità, dopo la lunga crisi bancaria italiana, oggetto di una recente commissione parlamentare d’inchiesta, centrata sull’azione della vigilanza e sul cattivo funzionamento della governance in molte banche finite in dissesto. La riflessione sul “caso Abete” può comunque giovarsi di un precedente diretto e prossimo.
Nel 1994 Giampiero Cantoni, presidente della Bnl allora ancora controllata del Tesoro, fu costretto a dimettersi dal suo consiglio dopo che un’ispezione della Banca d’Italia aveva rilevato anomalie riguardanti i rapporti fra la Bnl e il gruppo Mandelli, finito in bancarotta. Cantoni restò poi invischiato in alcuni strascichi giudiziari: ma non direttamente per il suo operato di presidente Bnl. La premessa alle sue dimissioni non fu comunque un leak giornalistico, ma una procedura ispettiva incisiva da parte del vigilante e la sanzione diretta giunse attraverso la sfiducia da parte del consiglio, a maggior ragione espressione dall’azionista-Stato.
Se c’è davvero un rischio-Abete dentro Bnl Repubblica può avanzare ragioni giornalistiche per denunciarlo, ma andrebbe denunciato con forza e completezza un ennesimo caso ampio di crisi bancaria: di grave inefficienza da parte dei consiglieri Bnl e del management; da parte di un gigante bancario Ue come la Bnp (che da 13 anni conferma Abete alla presidenza) e infine da parte degli organi di vigilanza dell’Unione bancaria.
Un quarto e ultimo spunto di riflessione – tutto di merito – è offerto dal fatto che il “verbale Cantoni” fu uno dei primo firmati dal governatore Antonio Fazio. Undici anni dopo, nell’estate 2005, il numero uno di Bankitalia fu il bersaglio della prima campagna mediatico-giudiziaria basata sulla pubblicazione sistematica di intercettazioni leakate dalle Procure. Il campo di battaglia erano le contese a colpi di Opa su AntonVeneta (fra l’olandese e Abn Amro e Popolare di Lodi) e su Bnl (fra lo spagnolo Bbva e una cordata capeggiata da Unipol). Bnl era già presieduta da Abete, e il cda era espresso da un variegato nocciolo duro post-privatizzazione, formato da Bbva, Generali, Diego Della Valle e immobiliaristi romani.
Tutti sappiamo come andò a finire: AntonVeneta finì per via giudiziaria ad Abn Amro (che fallì poco dopo) e ritornò in Italia a Mps, facendolo fallire. Bnl finì a Bnp con una transazione breve condotta da Guido Rossi, eminenza grigia della Procura di Milano. Fazio – alla vigilia del grande crack di Wall Street – fu cacciato da Bankitalia e poi processato per aver “vigilato male”.
Tutti ricordiamo anche le frasi più o meno memorabili intercettate e riportate quell’estate da tutti i grandi quotidiani in versione balneare. Furono tuttavia intercettati, leakati, manipolati mediaticamente i giocatori di una sola squadra: quella di Fazio, che difendeva l’italianità delle banche italiane. Nessuno ha mai potuto conoscere una sola virgola di quanto Abete quell’estate diceva al telefono, giocando nella squadra che vinse: quella della finanza di mercato internazionale appoggiata da circoli politici, giudiziari ed editoriali italiani.
Tredici anni dopo uno dei quotidiani in campo nel 2005 pubblica intercettazioni “casuali” da cui si evince che quel banchiere – forse – non era poi cosi “buono” rispetto a quelli narrati all’epoca come “cattivissimi”. E si scopre che – forse – quella che è stata a lungo nel dopoguerra la più importante banca italiana, è cambiata assai poco dopo essere stata consegnata per via mediatico-giudiziaria a una grande banca francese. Ma che le banche italiane fossero intrinsecamente “peggiori” di quelle non italiane era appunto il clima d’opinione creato dalle intercettazioni ordinate dalle procure italiane nell’estate 2005 e leakate per esteso dai grandi media italiani. TheFacebook era allora una piccola e semisconosciuta startup fondata da un gruppo di studentelli oltre Atlantico. Ma il mercato dei leak e l’uso mediatico-politico delle fake news esistevano già. Certamente in Italia.