Caro direttore,
c’è da augurarsi che il confronto post-elettorale sul governo italiano non faccia dimenticare alcuni interessanti spunti emersi più in campagna elettorale che dopo le elezioni. Le recenti interviste uscite sul Sussidiario, quella a Bertinotti e — prima delle elezioni — quelle a Dal Lago e a Luciani, mi fanno sperare che queste pagine possano ospitare e soprattutto incoraggiare un serio dibattito sul tema della disuguaglianza, “inequality”.
La parola “inequality” (la lascerei in inglese, visto che sarà la parola più dibattuta al mondo nei prossimi anni, credo) è da tempo prerogativa del pensiero progressista mainstream. Si tratta di una definizione che, nella sua fredda staticità, non esprime compiutamente la disastrosa e forse inarrestabile tendenza sociale a cui stiamo assistendo molto passivamente. I media mainstream, dal New York Times al Corriere della Sera e a Le Monde non favoriscono un dibattito critico ed evitano di osservare che dagli anni Novanta i grandi partiti di sinistra (e dunque le amministrazioni Clinton, Blair, Schröder, Brown, Obama-Clinton, Hollande) e i partiti europeisti di centro (Chirac, Merkel, Sarkozy) nel contesto delle Commissioni Ue di Prodi, Barroso e Juncker hanno impresso, dati alla mano, un’accelerazione impressionante al fenomeno della “inequality”, misurabile nelle più disparate forme di sintesi statistica: indici di concentrazione di ricchezza, differenza tra reddito del top 10% della popolazione rispetto al “bottom 10%”, eccetera.
Premi Nobel quali Krugman e Stiglitz hanno sempre avuto sensibilità per il tema in questione (soprattutto nel contesto della globalizzazione dei mercati), ma la loro quasi militanza per il lato democratico/progressista ha forse limitato l’oggettività e l’impatto delle loro ricette e proposte politiche.
Negli Stati Uniti il top 20% della popolazione possiede il 90% della ricchezza. Alcune stime, forse esagerate ma presentate e rilanciate aggressivamente nel periodo elettorale come pure l’anno scorso da New York Time e Washington Post (dichiaratamente pro Clinton), enfatizzavano il fattore “top 1%”: il massimo della “inequality” (wealth gap) è stato raggiunto nel 2016 con l’1% della popolazione in possesso del 50% della ricchezza Usa. Il fatto che un partito “di sinistra” possa perdere le elezioni contro un billionaire, in questo contesto di capitalismo degenerato e grandi media a favore, dimostra che il wealth gap è percepito dalla popolazione in modo non univoco. Durante la presidenza Obama c’è stata un’accelerazione di tutti gli indicatori di “inequality” e questo magari spiega molte cose.
Negli Usa la campagna elettorale del 2016 di Hillary Clinton si è focalizzata spesso sulla disparità del reddito e sulla tassazione del “top 1%” della popolazione. Il piano Clinton parlava di un aumento della marginalità del 4% per redditi superiori a 5 milioni di dollari e l’introduzione di una minimum tax del 30% sul reddito lordo superiore a 1 milione (imponendo, quindi, una limitazione alle varie deduzioni che negli Usa sono particolarmente vantaggiose per redditi alti e abbassano l’aliquota media effettiva). Quest’ultima misura era stata suggerita da Warren Buffett.
Nel tempio del libero mercato è logico che le differenze di “income” e “wealth” tra top 1% e valori mediani nazionali siano estreme e quindi facilmente utilizzabili a fini di propaganda politica. Negli Usa una tale misura di “inequality” è quindi insufficiente da un punto di vista della valutazione di equità sociale del paese. Per questo, quel tipo di messaggio semi-ideologico (“Non è accettabile che i super-ricchi paghino così poche tasse”) non è stato raccolto dalla middle e lower middle-class, che ha punito la Clinton votando il candidato che ha più correttamente interpretato il concetto più moderno di “inequality”. Forse Trump non ci ha pensato, ma è stato il primo politico a trarre vantaggio in qualche modo dall’idea che “inequality” non è un indice di concentrazione di ricchezza o di reddito, ma è una condizione di concentrazione delle opportunità (opportunità, non ricchezza!) in una sola classe sociale, lavorativa, community, o magari in una sola area geografica.
Trump è lontano dal diventare Nobel per l’economia, ma ha interpretato alcune dinamiche sociali meglio degli economisti di Harvard o Berkeley e meglio ancora dei suoi ricchi vicini di casa a Manhattan (come, per esempio, la famiglia Clinton). Anche per questo ha vinto.
Magari il Sussidiario concederà spazio a un dibattito sul tema, senza pregiudizi e con l’ambizione di affrontare in modo anche provocatorio e potenzialmente cinico domande quali: l’evasione fiscale c’entra con l’inequality? Una tassa patrimoniale o successoria riduce l’inequality? I politici socialisti e centristi hanno interesse a combattere l’inequality? Basse tasse universitarie contrastano l’inequality? Possono le istituzioni europee giocare un ruolo positivo in un contesto di classi politiche nazionali incapaci, corrotte e forse impotenti? Soprattutto: perché la classe politica leader di oggi in Europa e negli Usa forse non ha gli strumenti né un reale interesse a combattere l’inequality?
Se i piccoli spunti di questo articolo hanno senso, allora, caro direttore, concorderà con me sul paradosso che nell’Italia semidistrutta del secondo dopoguerra, con enormi disuguaglianze di ricchezza, di reddito e di scolarizzazione tra classi povere ed elevate come pure tra aree geografiche, c’era meno “inequality” di oggi. E purtroppo le attuali politiche economiche italiane ed europee ci portano a un rapido peggioramento della situazione. Siamo lontanissimi da un rallentamento di tale trend, purtroppo. Figuriamoci da un’inversione di tendenza.