“Se in Alitalia una delle due cordate avesse un piano industriale fattibile e soprattutto sostenibile, valuteremmo se portarla nel consiglio d’amministrazione o meno. Noi siamo disponibili, come nel caso di Ilva, come partner finanziario assolutamente di minoranza”: così si è espresso ieri Claudio Costamagna, presidente della Cassa depositi e prestiti, mandando delusi in partenza i molti che speravano in una possibile “rinazionalizzazione” dell’Alitalia, alla vigilia dell’avvio della procedura di vendita che – se e quando ci sarà un nuovo governo! – lo Stato dovrebbe effettuare.
Macché: al massimo, azionista di minoranza sarebbe, la Cdp. Come per l’Ilva, appunto: azienda venduta, anzi forse svenduta, dal governo ai franco-indiani di Arcelor Mittal, per quanto la Cassa militasse nella cordata avversaria. Ora, sia chiaro: Claudio Costamagna è un banchiere d’affari di lungo corso, espertissimo di business internazionale, uno che ha fatto tutta la carriera nel privato ed è giunto oggi, alla soglia dei sessant’anni, a un ruolo pubblico di potere e visibilità più che di guadagno, uno di quei ruoli da assumere in una logica da “servitore civico”, da “give-back”, come si definisce in slang americano il bisogno compulsivo di molti supermanager strapagati di restituire qualcosa alla società che li ha allevati finanziando borse di studio e biblioteche che incidono sul loro reddito come una monetina da un cent su quello di Paperone. Ma tant’è: se sono onesti e bravi, meglio averli che no.
Tornando a Costamagna, uno così non può non sapere che di un socio di assoluta minoranza qualunque nuovo, vero padrone di Alitalia non sa assolutamente cosa farsene. E allora perché ne parla? Fondamentalmente perché è una persona educata e risponde alle domande petulanti. Ma perché gliele fanno, queste domande? Per una volta non a causa del fatto – infondato, ma immaginato da tanti – che i giornalisti sarebbero tutti asini. Gliele fanno perché nessuno può credere che le attuali direttive del governo confinino la Cassa in un ruolo da parco giochi della finanza. Eppure è così.
Tutti immaginano e tanti auspicano un ritorno dello Stato padrone, una resurrezione dell’Iri, attraverso la Cassa. Altrimenti perché concentrare tante partecipazioni statali nei suoi forzieri? E invece, macché, quale Iri? Non scherziamo! Quelli dell’Iri hanno fatto l’Italia. Questi governanti degli ultimi anni hanno fatto semmai gli affari loro, e nemmeno! Non ha granché senso neanche interrogarsi su “cosa pensi realmente Costamagna”, perché non è nei poteri del vertice della Cassa cambiarne la vocazione strategica, che le viene prescritta dall’azionista pro-tempore, cioè il governo. E il governo in carica – che è ancora quello di Paolo Gentiloni – ha trovato in Pier Carlo Padoan e ancor più in Carlo Calenda due eredi legittimi di quella tradizione di pensiero disfattista anti-italiano per il quale meno roba si lascia in gestione allo Stato e meglio è, di quella filosofia autolesionista esterofila che indusse Beniamino Andreatta ad accettare un accordo con la Commissione europea che prescriveva il sostanziale smantellamento del sistema italiano dell’economia mista che tanti grattacapi aveva causato ai concorrenti stranieri, speculando sul pretesto del fallimento dell’Efim. Certo, era una scandalo, ma Van Miert e la Commissione europea imposero a Prodi, che non aspettava altro, di svendere tutto il patrimonio pubblico, per punizione. Vendere tutto! A chi? Ma semplice: a privati riluttanti e squattrinati desiderosi solo di lucrare sulle privatizzazioni e non certo di investire.
È andata così. L’inefficiente Italietta ha vissuto una barbara stagione di privatizzazioni, su cui hanno lucrato in tanti, fuori e dentro i confini. La ridefinizione della missione della Cassa, come pensata dall’allora ministro Tremonti e fatta digerire all’Europa perché ce l’hanno simile anche Francia e Germania, è stata un espediente contabile per poter privatizzare per finta qualche altra azienda pubblica, appunto fingendo di disfarsene, ma limitandosi invece a passarne la proprietà da una cassetto all’altro della stessa scrivania. Però abbattendo, così, lo stock del debito. Con l’Europa che riconosceva ma accettava la presa in giro. E con nomenclature benedicenti in Cassa.
Oggi c’è Costamagna, ieri Bassanini. Sempre civil servant, usi a obbedir tacendo sul senso inesistente delle strategie governative. Non resta che chiedersi se Di Maio e Salvini, qualora dovessero governare il Paese, si prenderebbero o meno la briga di restituire alla Cassa la sua missione di intervento pubblico di rilancio e salvezza industriale anche in grandi realtà. Ma che ne possono sapere, Di Maio e Salvini?