Cosa vi avevo detto che l’Isis – o, comunque, la cosiddetta minaccia jihadista – sarebbe tornata a breve in grande stile in Europa? Pensate che abbia contatti con membri influenti del Califfato? Che interpelli una palla di vetro? Che tiri a indovinare e spesso mi vada bene? Pensate pure ciò che volete, ma fatemi un favore: non state tranquilli. Per niente. E non perché l’Italia sia davvero nel mirino dell’estremismo islamico (non lo è più di quanto non lo sia stata negli ultimi anni), ma perché qualcosa si è mosso nel Deep State europeo, diretta emanazione di quello statunitense e vero deus ex machina dei movimenti politici ed economici. Prima la Francia, con il suo ennesimo radicalizzato noto ai servizi ma in grado di accompagnare la sorellina a scuola prima di fare la sua bella strage ed essere ammazzato dalle teste di cuoio, poi sempre in Francia il delitto da sceneggiatura di Steven Spielberg della cittadina di religione ebraica sfuggita alla shoah e ammazzata da un estremista islamico nella sua casa parigina, prima accoltellata e poi data alle fiamme con l’appartamento. La notizia ha fatto sensazione, oltre che il giro del mondo: ora, al netto dell’antisemitismo in crescita Oltralpe, innegabile, un paio di cose fanno riflettere, oltre alla storia di per sé da romanzo. 



Primo, il timing. Secondo, il fatto che nessun organo di stampa abbia trovato il tempo e la voglia di mettere in evidenza come nella stessa strada, solo la settimana prima, un’altra anziana sia stata uccisa per rapina. Inoltre, il presunto estremista islamico antisemita era nelle grazie della signora, la conosceva bene: come mai questa certezza assoluta della matrice anti-ebraica, tanto da mobilitare Parigi con una manifestazione da cui sono stati cacciati a suon di fischi e insulti sia Marine Le Pen che Jean-Luc Melenchon, guarda caso gli unici due politici in grado di disturbare il manovratore Macron? Di più, l’assassino ha precedenti penali per reati comuni, rapina e violenza sessuale, ma nulla che lo leghi ad attività politica, religiosa o terroristica: di colpo, salta fuori il movente antisemita. E l’immancabile “Allah Akbar” prima di compiere il misfatto che ha fatto rabbrividire un intero Paese, già scosso dall’attentato a Carcassone e dal gesto eroico del gendarme che ha sacrificato la sua vita per salvare quella di un ostaggio e di cui l’altro ieri si sono tenuti i funerali di Stato. Tutto insieme, tutto nell’arco di pochi, concentratissimi e tesissimi giorni. 



Per carità di Patria evito di addentrarmi nelle ultime novità sul caso della spia russa avvelenata a Salisbury, visto che la stessa Scotland Yard ha dovuto ammettere che il gas nervino era presente in concentrazione massima sulla porta di casa della vittima (quindi, probabilmente il genio lo teneva in casa), ma appare interessante, invece, notare come la Pasqua che ci apprestiamo a vivere sarà all’insegna della paura. O, quantomeno, della tensione. Mentre Salvini e Di Maio stanno facendosi cuocere a fuoco lento dal Quirinale, prima di rientrare nei ranghi (cosa che faranno, con le buone o con le cattive), ecco che Marco Minniti lancia l’allarme dal suo avamposto ormai a scadenza del Viminale: l’Italia non è mai stata come oggi nel mirino della jihad. 



Le prove? Anche qui, timing da studio cinematografico, tutto in pochi giorni. Concentratissimo, come occorre per attivare un po’ di sana psicosi prima di giorni di festa, in cui si tende a stare all’aperto e in luoghi pubblici. Prima una velina anonima dalla nostra ambasciata in Tunisia, rivelatasi una bufala totale, sembrava rientrare nel solito copione dell’allarme a caso, ma poi ecco che salta fuori il 23enne nerd islamista di Torino che passa tutte le giornate su Internet a reclutare terroristi e tradurre in italiano i testi dell’Isis: non esattamente un genio, visto le capacità di tracciatura dell’intelligence. E poi, gli stessi giornali ieri lo dipingevano come «un giovane impacciato che voleva fare stragi con i camion bomba». Ora, se esiste una modalità elementare di stragismo, è proprio questa. Basta noleggiare o rubare un furgone senza dare troppo nell’occhio e lanciarsi sulla folla: non serve aver frequentato un campo d’addestramento del Califfato. Né un corso fra le truppe d’élite delle Sas o dei Navy Seals. In compenso, la modalità dell’arresto segna nettamente la differenza di operatività ed efficacia della nostra intelligence rispetto a quella francese: i nostri 007 lo seguivano davvero il radicalizzato, lo hanno lasciato fare e lo hanno beccato quando stava per entrare in azione. Ma stava per entrare in azione? Boh, l’importante è infondere fiducia nella gente e far passare il messaggio. 

Ieri poi, la scoperta di una rete di fiancheggiatore di Anis Amri, l’attentatore del mercatino di Natale a Berlino, morto in un conflitto a fuoco con la polizia a Sesto San Giovanni durante un controllo di routine nel dicembre 2016 e dopo aver fatto fesse le intelligence di mezza Europa, esattamente come Salah Abdelslam. Delle 5 persone fermate fra Roma e Aprilia, solo una è stata accusata di addestramento con finalità terroristiche, poiché scaricava dal web video e tutorial sull’uso di esplosivi: gli altri devono rispondere di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, reato legato proprio all’aiuto che avrebbero fornito ad Amri per tornare in Italia! Ovvero, fra due giorni, massimo dopo Pasqua (quando l’attenzione si sposterà al Quirinale per le consultazioni), saranno fuori di galera. Magari, anche con tante scuse. L’unico che deve rispondere di un reato più grave deve questa condizione al contenuto delle intercettazioni telefoniche che lo vedono protagonista, in grado di svelare come dicesse a un amico che agli occidentali bisognerebbe tagliare la testa, uno dopo l’altro. Al netto che servirebbe un carcere in ogni strada se dovessimo intercettare tutto ciò che diciamo al telefono con una persona intima (io di certo non sfuggirei al reato potenziale di stragismo da incazzatura quotidiana), sapete chi era il confidente di tale piano eversivo? Un imam? Un miliziano? Un fedele suo sodale? No, uno spacciatore di droga, attività da sempre fra le più apprezzate da Allah al fine di concedere il paradiso ai suoi seguaci. 

Perché faccio dell’ironia su cose così serie, su un pericolo potenzialmente letale che ha già mietuto molte vittime in Europa e nel mondo? Primo, i precedenti. Tutti gli arresti compiuti in Italia (evito di ricordare le figure da cioccolatai collezionate dagli investigatori francesi, belgi e britannici negli scorsi anni, così come modalità originali quali l’abbandono del passaporto o il suicidio spacciato per martirio da kamikaze, stile Stade de France) per reati legati al terrorismo si sono rivelati poi falsi allarmi. Le cose serie, non le si rende note: il soggetto viene preso ed espulso, in collaborazione con il Paese d’origine o le intelligence straniere. Secondo, il momento politico che sta vivendo il Paese. Di fatto, siamo nella versione laica e civile della sede vacante, visto che Gentiloni si è dimesso, ma lui e il suo governo restano come prassi in carica per il disbrigo dei cosiddetti “affari correnti”, in attesa che i due statisti usciti vincitori dalle urne del 4 marzo decidano cosa fare da grandi. E, sinceramente, quale miglior metodo esiste per segare le gambe alle speranze di entrambe che mettere l’opinione pubblica in modalità ansiogena per il rischio terrorismo, di fatto prefigurando l’idea che un domani molto prossimo potrebbero essere Salvini o Di Maio a doversi occupare del tema e non più il serio e affidabile Gentiloni o, meglio ancora, lo sceriffo Minniti? 

Voi ovviamente non lo percepite come messaggio subliminale, ma lo è. E ai massimi livelli di penetrazione e potenziale: c’è la percezione di pericolo invisibile e ubiquo, il clima di festa che viene turbato e amplifica ogni tensione, i media che martellano come dopo l’11 settembre per sei arresti di altrettanti ma presunti estremisti, un numero abbastanza esiguo se pensiamo alla quota fisiologica di psicopatici che albergano nella numerosa comunità islamica italiana. E poi, il fuoco di fila, l’uno-due degno di Mike Tyson partito dall’assalto al supermercato francese e terminato, per ora, con la rievocazione del fantasma di Anis Amri, il tutto godendo anche dell’ontologico deficit di memoria del popolo italiano: la famosa comunità islamica di Aprilia era infatti finita nel mirino degli investigatori italiani non molto dopo la morte dell’assalitore di Berlino, avvenuta nel dicembre 2016 a Sesto San Giovanni. Hanno solo, formalmente, seguito una pista pre-esistente: e i fermati, nonostante quanto accaduto, sono stati così fessi da parlare di decapitazioni al telefono! Davvero dei terroristi di prima categoria, nel mondo del deep web, della criptografia e di Telegram! 

Il tutto, mentre il cosiddetto mondo libero e civile scatena un’offensiva politico-diplomatica senza precedenti contro l’unico politico che ha affrontato di petto e direttamente l’Isis, in Siria come altrove: Vladimir Putin. Fare pace con il cervello, no eh? E chi c’era accanto ai russi, oltre alle milizie dell’altrettanto vituperato Bashar al-Assad? Gli iraniani finiti nel mirino diretto di Israele e di quegli Usa che fra un mese dovranno decidere la sorte proprio dell’accordo sul nucleare con Teheran. Pensate che in quei Paesi non siano in atto scontri e giochi di potere al riguardo? Prendete Israele. Di colpo, Bibi Netanyahu finisce in ospedale d’urgenza con tosse e febbre alta (devono aver finito la Tachipirina da quelle parti oppure anche a loro piacciano le drammatizzazioni) e cosa si sentono in dovere di rendere pubblico sei ex dirigenti del Mossad? Auguri di pronta guarigione? No, che le scelte politiche del nostro ricoverato su cui pende il rischio di impeachment e arresto per corruzione (casualmente, finisce in ospedale) hanno solo aggravato la situazione di sicurezza del Paese. Non c’era un altro momento per dirlo? Proprio adesso occorreva stroncare l’operato del buon Bibi, mentre gli spalmano tonnellate di Vicks Vaporub sul petto? 

E gli Usa? Al netto di un Donald Trump che ormai appare come Caligola, il quale nominò senatore il suo cavallo, mentre l’inquilino di Pennsylvania Avenue ha appena nominato segretario agli Affari dei veterani il medico della Casa Bianca, ecco che tre bazzecole sottotraccia ci fanno capire che la guerra all’interno degli strati intermedi dell’amministrazione statunitense sia entrata in una fase decisamente nuova. E decisamente seria. Primo, guardate questo grafico: ci mostra plasticamente come quella in atto nel comparto tech sia la terza bolla più grande di sempre a livello di equities. E guardate un po’ come viene definita: e-commerce, ovvero legata direttamente al commercio on-line, leggi Amazon. E contro chi si è lanciato non più tardi di mercoledì Donald Trump, con irritualità da denuncia per turbativa dei mercati? Contro il gigante di Jeff Bezos, il quale a suo dire starebbe uccidendo decine di migliaia di mitici “negozi all’angolo”, tanto che la Casa Bianca starebbe pensando a una tassa ad hoc per contrastarne lo strapotere: et voilà, il titolo si schianta in Borsa, trascinando con sé il resto delle cosiddette Fang, tra cui Facebook. 

 

A proposito, guardate questo altro grafico: nonostante le patetiche accuse che vengono mosse contro il social network (sperare nella privacy operando su quelle piattaforme è come sperare di trovare il fresco a Tunisi il 10 di agosto), il social network di Zuckerberg sta perdendo consenso, fiducia e credibilità fra la gente. Oltre che aver perso già il 20% di capitalizzazione in una settimana di trading. 

 

E se da un lato questa crociata sta di fatto facendo sgonfiare quella bolla enorme senza contagiare gli altri listini Usa e mondiali (il potenziale per farlo c’è tutto, basta guardare i numeri che vanno ben oltre quelli della bolla tech del 2000), dall’altro sta ottenendo il risultato più importante, quello a livello di controllo e manipolazione politico-sociale. Facebook, infatti, si è rivelata un’arma a doppio taglio, un boomerang clamoroso per la strategia mondialista delle fake news, visto che ha permesso a sempre più soggetti – non ultimo la controinformazione russa di Rt e Sputnik – di diffondere versioni alternative della realtà che i media spacciavano per conto del potere, oltre che analisi critiche rispetto ai nuovi totem imposti dalla comunicazione di massa (e di cui i social network erano e sono i cantori principali) come l’ideologia gender, la dittatura dei diritti per tutti e tutto, il piagnisteo delle minoranze che tali non sono e le deliranti politiche degli arcobaleni e dei gessetti colorati come risposta all’emergenza terrorismo, tanto per tornare al punto di partenza dell’articolo. Insomma, reazioni da cani di Pavlov bene educati al politicamente corretto rispetto false stimolazioni, tutte e comunque strumentali al potere e alle sue agende politiche, più o meno nascoste. Quindi, oltre che il market cap, occorre sgonfiare anche un poi l’influenza e l’utilizzo globale di Facebook e soci come veicoli informativi, visto che sono andati fuori controllo e veicolano messaggi pericolosi per lo status quo. Ad esempio, la verità, dalla Siria in poi, magari anche sulla spia russa e i laboratori militari britannici. 

Secondo punto, nel silenzio generale dei grandi media, è partita la seconda crociata, ovvero quella che trasformerà Donald Trump nel capro espiatorio della prossima, inevitabile crisi finanziaria, permettendo a Wall Street, Fed e comparto bellico-industriale Usa di evitare il cappio e la forca. Parlando sabato scorso a Pechino, il premio Nobel e accademico di Yale, Robert Shiller, cosa ha dichiarato? «Il caos che verrà innescato dalla guerra commerciale scatenata dallo showman Trump porterà con sé un impatto devastante. In primo luogo avremo una crisi economica immediata negli Usa, ma gli effetti di medio termine potrebbero essere ancora più profondi». Verrebbe da chiedere al professorone se sia colpa di Trump anche la terza bolla più grande di sempre che grava su Wall Street, forse un po’ più grave di una crisi commerciale globale che – di fatto – si sta già sgonfiando, ma tant’è, qui non si tratta di dire la verità. Ma di fare in modo che l’Impero sopravviva. 

E terzo, per ottenere questa finalità, occorre fare come in Georgia, Stato degli Usa dove è stata lanciata una campagna di confisca delle armi pesanti, seppur detenute legalmente dai cittadini in base al Secondo Emendamento. A lanciare la crociata, la deputata democratica Erica Thomas, a detta della quale la mossa non si configura come «la confisca di armi legalmente detenute da cittadini perbene, diciamo che è un bando sui fucili d’assalto. Per quale guerra i cittadini dovrebbero detenere fucili d’assalto?». Forse quella contro Washington, il Deep State e il suo status corrotto e finanza-centrico, quando prima delle elezioni di medio termine, l’ormai non più utile idiota Donald Trump verrà fatto fuori dalla Casa Bianca. 

Meglio disarmare i cittadini, prima di incorrere in una seconda guerra civile americana, che ne dite? Anche perché gli Usa profondi, l’Idaho, il Montana, il Sud, sono armati fino ai denti e di milizie di cittadini, dei più vari orientamenti, ce ne sono centinaia. Capito ora perché il campione dei Democratici, quel Michael Bloomberg che in molti vorrebbero come l’arma segreta post-Clinton per tornare alla vittoria, ha lanciato la proposta fattiva di una confisca di massa attraverso la Gun Control Initiative, finanziata in prima istanza proprio dal sindaco liberal con 32 milioni di dollari e a cui aderiscono già oltre 400 primi cittadini? E, casualmente, qual è la nuova battaglia social, fashion e molto politicamente corretta della meglio gioventù globalista, Stati Uniti in testa? La lotta contro la vendita e detenzione facile di armi, vedi le manifestazioni tenutesi in tutti gli Usa la scorsa settimana, con 800mila persone solo a Washington e le telecamere di tutto il mondo pronte a glorificare l’evento. 

Ma se volete, abbiate pure paura e chiedete allo Stato, all’intelligence e al potere di difendervi. Loro non aspettano altro, ne saranno deliziati.