Una grande quiete, e non solo per il silenzio elettorale. Mentre gli italiani vanno alle urne, tutti i segnali che arrivano da Oltralpe, soprattutto dai mercati finanziari, anziché annunciare tempesta mostrano una sostanziale tranquillità. Vedremo se sarà così anche domani quando, con tutta probabilità, ancora non sapremo se il nuovo Parlamento è in grado di esprimere una chiara maggioranza. Certo è che lo spread se ne è stato buono buono attorno a 130 punti base tra i Btp decennali e i Bund tedeschi; le borse pensano più ai dazi di Donald Trump che ai rischi del populismo italiano; gli osservatori internazionali invitano a tenere i nervi saldi e il sangue freddo. Non è così per alcuni dei più influenti quotidiani (Le Figaro, El Pais, il Wall Street Journal, per esempio), ma si sa che in questi tempi grami l’importante è vendere e si vende con le cattive non con le buone notizie.
Una coltre intessuta di punti interrogativi sta calando sull’Europa tanto che persino gli speculatori incalliti non sanno su chi puntare e su che cosa scommettere. E non c’è solo l’Italia. Per un paradosso tipico della politica, il Paese più forte, più solido, economicamente più prospero, cioè la Germania, non riesce ancora, dopo ben cinque mesi, a formare un governo. Può darsi che oggi nella Spd, il partito socialdemocratico, cada anche l’ultima resistenza da parte dell’ala sinistra, però la fatica, la scelta compiuta turandosi il naso, tutto questo piegarsi al meno peggio, non promette nulla di buono.
Il Wall Street Journal si lancia in un parallelo forse ardito, ma azzeccato, tra le sorti della Spd e quelle del Partito democratico italiano, chiedendosi che fine abbia fatto la sinistra moderata. Dopo aver compiuto una svolta storica negli anni ‘90, accettando la globalizzazione e le regole del mercato, adesso viene insidiata non tanto dall’estrema sinistra che fa registrare ovunque risultati modesti, ma dalla destra populista. La classe operaia vota a destra (il fenomeno è cominciato in realtà in Francia e lo si è visto negli Stati Uniti pur con tulle le peculiarità americane) anche perché non c’è più una classe operaia come quella alla quale ci aveva abituato il pensiero marxista nell’era della grande industria. Oggi esistono categorie operaie esse stese divise: da un lato i lavoratori delle imprese che ce l’hanno fatta, che competono, che tengono testa alla grande onda asiatica, dall’altro chi è rimasto indietro se non proprio tagliato fuori, che chiede protezione e assistenza da parte dello Stato. Senza contare il “proletariato digitale”, entrato in un mercato del lavoro aperto e flessibile.
Questo inusuale rimescolamento rimette in discussione le famiglie politiche nelle quali si sono divisi gli elettorati dei paesi occidentali per decenni. La forza del Movimento 5 Stelle o di Alternative für Deutschland sta proprio qua. In Francia un personaggio nuovo e arrembante come Emmanuel Macron ha colto al volo lo spirito dei tempi e ha lanciato la sua sfida trasversale puntando non sulla rabbia, il rancore, la voglia di rivincita dei perdenti, ma sul desiderio di modernizzazione da parte dei vincitori. In Germania le forze politiche tradizionali si sono chiuse in trincea (e questa Grosse Koalition ha l’aria dell’ultima trincea). In Italia l’instabilità è massima, quindi non c’è che da attendere e stare a guardare.
All’estero e sui mercati sperano che alla fine si formi anche a Roma una coalizione ampia, come a Berlino. Comunque vada a finire e anche se il M5S diventa la prima forza politica, la partita si gioca tra due moderati: Paolo Gentiloni e Antonio Tajani, uno di centro-sinistra e l’altro di centro-destra. Nessuno dei due, però, sembra poter avere abbastanza truppe per garantire una maggioranza di governo. Non solo, entrambi sono insidiati nel loro stesso campo. La tensione maggiore ora è a destra, dove Matteo Salvini non ha digerito la scelta fatta da Silvio Berlusconi e insiste: se avrà più voti di Forza Italia il leader del Carroccio vorrà andare a palazzo Chigi. Ma, al di là dei convenevoli di facciata, anche Gentiloni deve guardarsi da molti avversari interni; in realtà, dallo stesso Matteo Renzi che ha fatto solo un finto passo indietro e cerca ostinatamente la rivincita personale. Ciò aggiunge incertezza all’incertezza, confusione alla confusione.
Se passiamo dal gioco delle personalità e dei partiti ai contenuti di governo, il velo si fa più spesso. L’Italia ha toccato il record delle promesse elettorali, ma anche in Germania i partiti che s’avviano a formare la grande coalizione hanno messo tanta carne al fuoco. Si pensi alla proposta di impiegare gran parte dell’attivo della bilancia con l’estero (ammonta a circa 400 miliardi di euro) in investimenti nelle infrastrutture e in aumento dei consumi interni. Questo è un bene per l’Italia visti i legami commerciali tra i due paesi, ma per evitare che la spesa produca inflazione, i tedeschi faranno fuoco e fiamme affinché la Bce aumenti i tassi d’interesse e smetta di comprare titoli di stato; il che finisce per danneggiare l’Italia se nel frattempo non avrà aggredito il debito pubblico. Dunque, la stessa politica economica è foriera di incertezza.
Il tutto all’interno di un punto interrogativo ancor più grande: i dazi annunciati da Donald Trump sull’acciaio che penalizzano tutta la siderurgia europea, sono il segnale che davvero è arrivato il protezionismo? Cominciano guerre di mercato che non si sa come andranno a finire? Le ripercussioni sulle monete prefigurano un braccio di ferro tra le principali valute, soprattutto tra le due più importanti, il dollaro e l’euro. Incertezza, ancora incertezza, che si propaga dalla politica interna dei principali paesi europei alla politica internazionale. Anche per questo gli uomini che muovono i mercati preferiscono essere cauti; una volta tanto danno ragione al motto di Plinio il Giovane: talora non è meno eloquente il tacere del parlare.