Colpisce il recente allarme lanciato da Jean-Claude Juncker in vista del voto del 4 marzo. Per il presidente della Commissione Ue “dobbiamo prepararci allo scenario peggiore, cioè un Governo non operativo in Italia“. Il motivo non è tanto l’instabilità politica che, a dire il vero, paventano in tanti, non solo Juncker, ma la conseguenza immediata segnalata: “è possibile una forte reazione dei mercati nella seconda metà di marzo, ci prepariamo a questo scenario“, pur avendo poi riconosciuto, a parziale rettifica e sempre per mitigare i mercati che “le elezioni sono un’occasione di democrazia. E questo si applica anche all’Italia […]. Qualunque sarà l’esito elettorale, sono fiducioso che avremo un governo che assicurerà che l’Italia rimanga un attore centrale in Europa e nella definizione del suo futuro“. 



Le parole di Juncker tradiscono quella che è la vera preoccupazione, cioè non turbare troppo i mercati finanziari, per evitare il crollo dei listini e soprattutto del valore dei titoli di stato emessi dai vari Paesi, che si tradurrebbe in un maggior costo del debito sovrano, timore non certo ingiustificato, soprattutto per le periferie dell’Unione, alle quali si lascia sempre di più l’impressione di essere figli di un dio minore, che intralciano il cammino dei virtuosi, mentre in un contesto comune eccessi di debito ed eccessi di credito, come nel caso della Germania, sono corresponsabili dei disavanzi commerciali e dell’andamento dell’economia.



Mi stupisce in sintesi l’attitudine, quasi universalmente accolta e scontata, a finanziarizzare subito le difficoltà e i problemi. Il lavoro, ad esempio, non dovrebbe essere una preoccupazione di minor peso: instabilità politica significa, infatti, incertezza e, in un momento di ripresa, ancorché debole, frenerebbe ulteriormente le assunzioni e spingerebbe le multinazionali a delocalizzare altrove la produzione, finendo per allontanare investimenti esteri davvero produttivi, non circoscritti agli scambi in borsa per realizzare plusvalenze finanziarie. 

L’assenza di regole comuni sul mercato del lavoro genera casi assurdi, come quello della recente Embraco: ha ragione il ministro Calenda nel ricusare una trattativa non condotta ad armi pari, con un Paese dove il costo del lavoro è meno della metà di quello italiano, nonostante i numerosi incentivi contributivi e fiscali introdotti negli ultimi anni e dove l’Italia può fare ben poco senza cadere nella trappola degli aiuti di Stato, sui quali l’Unione europea pone un rigoroso veto. Le ragioni della reazione del ministro e di tutta la vicenda sono state chiarite molto bene – a mio parere – da Paolo Annoni su queste pagine. L’assenza di un governo centrale comune si traduce nei fatti in un’assenza di sovranità politica negli altri paesi: basta pensare alla Grecia, di cui nessuno parla più, per il semplice motivo che non c’è granché da dire: le sorti di quella nazione vengono sistematicamente decise nella sede del ministero dell’Economia tedesco, a prescindere dalla visione politica di chi governa, praticamente priva di incidenza reale.



L’incapacità di andare oltre la visione parziale immediata, espressa a mio avviso da Juncker e da tanti altri, che può essere data dal timore per i mercati finanziari, per l’immigrazione, per la sicurezza nazionale – timori in se stessi giustificati, intendiamoci – rappresenta la grande miopia di oggi, una miopia antropologica prima ancora che politica o economica, che affligge l’intera società contemporanea. Per questo mi sembra assai realistico, nel discorso dell’1 ottobre scorso a Cesena, l’invito del Papa a tornare in piazza, cioè a tornare a incontrarsi e a parlarsi nel luogo dove si comincia a fare politica, dove si impasta il bene comune, armonizzando i desideri particolari con quelli della collettività, che poi, per coloro che scelgono di fare della politica il proprio mestiere, si traducono in iniziative democratiche e parlamentari.

Per capire dove porta l’impostazione contraria, basta tornare al caso Embraco: a Spisska Nova Ves (Slovacchia) la stessa azienda continua ad assumere, mentre a Riva di Chieri licenzia, rifiutando qualsiasi progetto di riorganizzazione sul territorio. Intervistato dal quotidiano La Stampa, un operaio italiano in servizio presso l’azienda in Slovacchia, lì mandato anni fa per avviare la fabbrica, ha focalizzato molto bene il problema in poche parole: “La verità è che l’Europa si sta livellando verso il basso. Tutta. Ci hanno ridotti così: mors tua, vita mea“.